domenica 18 novembre 2007

Il segreto dei ricordi a lungo termine

Come fa il cervello ad immagazzinare tutti quei ricordi a lungo termine che pian piano andranno a formare la nostra memoria? L’hanno scoperto due ricercatori dell’Università dell’Arizona (Stati Uniti), David Euston e Bruce McNaughton, secondo i quali l’organo del corpo che funge da vero e proprio registratore dei ricordi a lungo termine si troverebbe proprio sopra il nostro naso. A detta dei due scienziati statunitensi, inoltre, questo pseudo-registratore funzionerebbe soltanto la notte, quando noi dormiamo, riavvolgendo tutti i ricordi formatisi durante il giorno e fissandoli così più a lungo nel nostro cervello.

sabato 17 novembre 2007

Professori d'America milionari

Chi l’ha detto che solo i rettori delle università portano a casa ogni anno un bel gruzzoletto? Ora come ora, infatti – almeno secondo un recente studio pubblicato dal New York Times – anche tutti gli altri professori d'America, soprattutto nei costosi atenei privati, non se la passano poi tanto male (economicamente, s’intende). Basti pensare che nel mondo universitario d’Oltreoceano, ad esempio, nell’anno accademico 2005-2006, rispetto all’anno precedente, le buste paga in milioni di dollari (per i docenti degli atenei privati) sono passate da 7 a 12. Ma non pensate che le università statali siano da meno. Ne è un esempio lampante il nuovo rettore della Ohio State University, E. Gordon Gee, che ha totalizzato la bellezza di un milione di dollari in busta paga.

A proposito di "Gomorra"







venerdì 16 novembre 2007

IL LIBRO: Io sono Charlotte Simmons

In copertina il volto innocente, a tratti ingenuo, di una ragazza: occhi azzurri, capelli castani, pelle bianca e un rossetto scuro a dare maggior risalto a quello sguardo di giovane studentessa universitaria che sembra sapere tutto lei, senza ombra di dubbi esistenziali, quei dubbi che nell’arco delle quasi ottocento pagine di “Io sono Charlotte Simmons”, ultima fatica di Tom Wolfe, non mancheranno di tormentarla (e di cambiarla).

Quella ragazza è Charlotte Simmons, appunto. E qui sta la sfida che il lettore accetta dall’autore, pronti ad iniziare un viaggio nell’animo innocente e dissoluto della gioventù americana, quella iscritta ai migliori atenei a stelle e strisce (nel caso di Charlotte si tratta dell’immaginaria Dupont University).

E di ragazzi alla Dupont ce ne sono tanti, e di tutte le “specie”, in questo bel romanzo di Tom Wolfe: chi con una borsa di studio (come Charlotte, giovane originaria delle montagne del North Carolina), chi come atleta che delle lezioni e degli esami se ne infischia, chi (come alcune ragazze a dir poco disinibite) con il pensiero fisso di scoparsi i ragazzi più cool del college.

Insomma, lo sfondo sociale è variegato. Ecco perché il libro non parla solo di Charlotte, ma soprattutto dell’influenza che gli altri ragazzi, con i loro comportamenti e giudizi, hanno sulla sua debole (e apparentemente forte) personalità. Si tratta pur sempre di una giovane matricola in cerca di approvazione. Come riuscirà ad ottenerla, se ci riuscirà?

Tom Wolfe ci narra di questa ascesa sociale (o discesa, a seconda dei punti di vista) con i pensieri convulsi dei personaggi, spesso impegnati a parlare con se stessi per cercare di superare gli ostacoli di una vita che sembra una giungla, dove bisogna saper lottare per sopravvivere.

E ne è consapevole Charlotte, che nei primi mesi trascorsi nel campus della Dupont scopre a sue spese la solitudine: “Alla Alleghany High” - scrive Tom Wolfe – Charlotte “aveva affrontato ostilità ed emarginazione… ed era stata palesemente fuori dai giri giusti… era rimasta fedele a se stessa… non si era lasciata condizionare (…) e aveva proseguito per la sua strada, fino ad approdare in una delle migliori università del mondo. Quindi, neanche adesso si sarebbe lasciata condizionare. Niente l’avrebbe fermata… niente. Se doveva cavarsela da sola, se la sarebbe cavata da sola. Però… si sentiva sola come un cane”.

La vita universitaria per Charlotte, lontana dai suoi affetti più cari, è dura più che mai, e le tentazioni sono sempre lì, nell’ombra, pronte ad afferrarla e condurla nei meandri di una nuova vita, con altri amici.

Hoyt Thorpe - “il simbolo di tutto ciò che è più immorale, sfrenato, infantile, crudele, irresponsabile, insensibile e vile nella gioventù americana” - è uno di questi, affascinante ragazzo della Dupont che fa una corte serrata alla giovane matricola del North Carolina, ancora vergine nei sentimenti (e non solo).

E così, quella spiacevole solitudine che la opprimeva – “Era una sensazione fisica. La sentiva. Era un sesto senso, non per fare uno strano gioco di parole, ma aveva una concretezza. Faceva male… faceva male come se dei fagociti ti divorassero la materia grigia” – scompare dall’orizzonte della sua vita lì alla Dupont.

A quale prezzo, però? Lo scoprirà ben presto, costretta a rinunciare, anche se per un attimo, a quei valori che, fino ad ora, l’avevano guidata, rendendola più forte di quello che era, facendola sentire sola ma pur sempre priva di sensi di colpa, quei valori che avevano preservato la verginità del suo animo innocente.

D’altra parte, come disse Socrate, “Se un uomo si degrada, convinto che ciò gli procuri felicità, sbaglia per ignoranza perché non sa cosa sia l’autentica felicità”.

La troverà, la sua autentica felicità, Charlotte Simmons?

IL FILM: Funeral Party

Alla morte del padre di famiglia, tutti i parenti si riuniscono nella casa del defunto per commemorarne la vita. Ed è proprio in questa casa che si scatenano, a ritmo forsennato, eventi che nella loro imprevedibilità riusciranno, anche solo per un istante, ad esorcizzare il triste e ineluttabile alone di morte che aleggia nell’aria.

E’ qui, dunque, che si insinua alla perfezione la commedia di Frank Oz, che già a partire dal titolo – “Funeral Party” – è tutto un programma. Ognuno infatti, all’inizio, sembra assorto nella propria tristezza dinanzi alla dipartita di un parente perduto, ma ben presto nessuna malinconia riuscirà a prevalere su una serie di gag tragicomiche (per lo sfondo entro il quale avvengono: un funerale, appunto) capaci di trascinare i personaggi della storia (insieme agli spettatori in sala) nel vortice apparentemente infinito di equivoci, umiliazioni, frustrazioni e confessioni varie.

Così, alla luce dell’eterna competizione fra Daniel e Robert, figli del defunto e fratelli che non si sono mai compresi del tutto; dinanzi alle ansie di Daniel preoccupato di mantenere la promessa fatta alla moglie di comperare la villa dei loro sogni; dinanzi all’agitazione di Martha, cugina di Daniel e Robert, che ha deciso di portare al funerale il suo ragazzo, Simon, per presentarlo (lei spera con successo) al padre severo; e alla presenza, inquietante quanto misteriosa, di uno sconosciuto invitato al funerale, le contraddizioni della vita, con le gelosie e i segreti che ogni essere umano ha in serbo per sé e per gli altri, diventano lo sfondo di questa esilarante commedia.

Una commedia che strappa non poche risate al pubblico in sala, e non sempre con situazioni volgari, anzi, spesso con una comicità genuina e sincera, che va al fondo del significato inestricabile della vita.

Se non fosse solo per il finale un po’ troppo edificante, il film sarebbe un ottimo esempio di cinema comico e “impegnato” al tempo stesso, capace di farci riflettere sul senso a volte tragicomico delle nostre esistenze, soprattutto quando è la morte a chiarirci quanto in realtà siamo attaccati alla vita.

IL LIBRO: Gomorra

«Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto…io so dove le pagine dei manuali d’economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti…io so e ho le prove…le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni».

Proprio così, «riprese con le iridi, raccontate con le parole», le prove divengono patrimonio culturale della coscienza collettiva, e il miracolo della testimonianza diviene reale, concreto, grazie alle pagine di un libro, grazie alla forza della Letteratura, capace ancora una volta di farci immergere nel sotterraneo, nell’oscuro, dove l’occhio indiscreto dei media non arriva, o trova sin troppo semplice non arrivarci.

Parlare di “Gomorra”, e del suo giovane (e sotto scorta armata) autore, Roberto Saviano, significa essere consapevoli di questo punto di vista alternativo nel guardare lucidamente alle cose di “camorra”. Non è un caso, allora, sfogliando le prime pagine del libro, trovare questa citazione di Hannah Arendt: «Comprendere cosa significa l’atroce, non negarne l’esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà».

“Spregiudicatamente”, appunto, sembra essere stato il principio guida di Saviano, consapevole di doversi per forza di cose “sporcare le mani” per entrare a contatto con la dura e assurda “vita di camorra”. Come giustificare, altrimenti, questo “Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra”?

Ecco allora, con la sola forza dirompente della scrittura, come trovarsi dinanzi all’indicibile, al cospetto della morte, con il crollo dei più abusati luoghi comuni: «Quando si muore per strada si finisce con un chiasso orrendo intorno. Non è vero che si muore da soli. Si finisce con facce che non si conoscono davanti al naso, persone che toccano gambe e braccia per capire se il corpo è già cadavere o vale la pena chiamare l’autoambulanza».

Così si muore a Napoli e dintorni, dove «il mestiere di vivere», come scrive Saviano, può essere «una condanna all’ergastolo, una pena da scontare attraverso un’esistenza brada, identica, veloce, feroce»; «dove la verità è sempre la versione dei potenti, dove viene declinata raramente e pronunciata come merce rara da barattare per qualche profitto»; dove «tagliare cadaveri e spargerne i pezzi è il miglior modo per rendere indelebile un messaggio».

Leggere Gomorra, dunque, non è proprio un piacere: la cronaca dettagliata delle faide di camorra, dell’assurdo business sui rifiuti tossici, della colpevole collusione tra imprese e criminalità organizzata, ci danno al termine della lettura un’asfissiante sensazione di nausea.

Sfogliando le pagine cresce la consapevolezza di essere, seppur indirettamente, un po’ colpevoli di questo tragico status quo, e per chi vive nei dintorni di Napoli, Salerno e Caserta, quel senso di inadeguatezza e di vergogna, che ci si sente addosso come una seconda pelle, è un colpo ancor più duro inferto al proprio animo.

Scrive in conclusione il giovane scrittore napoletano: «Conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare».

Ecco perché leggere “Gomorra”.

IL LIBRO: La scomparsa dei fatti

"La differenza fra chi scrive per i suoi lettori e chi scrive per altri si nota subito: il primo parla chiaro e lo capiscono tutti, il secondo parla in codice e lo capisce solo chi lo deve capire” ha scritto Marco Travaglio ne “La scomparsa dei fatti”, citando Indro Montanelli.

E il celebre giornalista “contro” è uno di quei pochi professionisti dell’informazione a scrivere sempre per i suoi lettori, e a parlare chiaro, come ben si evince da questo libro - “La scomparsa dei fatti” – lucida requisitoria sull’impietoso stato di salute dell’informazione made in Italy.

Già il titolo è tutto un programma, alla luce del nuovo motto del giornalismo italiano – “Niente fatti, solo opinioni” – poiché, scrive Travaglio, “senza fatti, si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Con i fatti, no”.

E ad andarci sotto, come sembra suggerirci l’autore, è il popolo bue, costretto a sorbirsi, ogni giorno e a qualsiasi ora, le balle ufficiali propagandate dai mezzi di informazione, dalla tv ai giornali.

Ma spesso non si tratta solo di mera propaganda, bensì di un vero e proprio occultamento dei fatti, e quindi delle notizie. Due sono le tecniche di occultamento dei fatti, secondo Travaglio: “gli anestesisti di regime (…) o si concentrano su un aspetto marginale e fuorviante della notizia, oppure ne trovano un’altra per rimpiazzarla al più presto”.

Qualche esempio concreto? “La prima tecnica” prosegue Travaglio “è quella adottata per depotenziare gli scandali scoperti dalle intercettazioni (si parla del contenitore, cioè del fatto che i giudici intercettano, per non parlare del contenuto, cioè di quanto viene smascherato da quei controlli)”. Come dire: è il giornalismo (italiano), bellezza!

Ma a bruciare ancor di più, in questa continua campagna di occultamento dei fatti, è la rimozione di quelle notizie (scomode) relative agli intoccabili della politica. Ecco perché Marco Travaglio parla della cosiddetta “legge degli intoccabili”.

Di che si tratta? “Se un intoccabile viene indagato” scrive l’autore “non dev’essere processato; se poi, per disgrazia, viene processato, non dev’essere condannato; se poi, per somma sventura, viene condannato, o comunque dichiarato colpevole, nessuno lo deve sapere”.

Anche qui gli esempi non mancano. “Per i processi di Tangentopoli, come per quelli di Palermo su mafia e politica” prosegue Travaglio “le uniche sentenze di cui si può parlare sono quelle di assoluzione (…). Quelle di prescrizione – quasi sempre condanne mancate per motivi di tempo, previo riconoscimento della sicura colpevolezza – devono essere presentate come assoluzioni (…). Quelle di condanna, invece, devono essere occultate, rimosse, minimizzate. Se sono di primo o secondo grado, si dice che è meglio attendere la Cassazione. E se poi (…) arriva anche la condanna in Cassazione, non vale comunque. Si tratta di sentenze politiche (…)”.

Come ha scritto Michael Braun su “Internazionale”, “In Italia non basta neanche la responsabilità penale. Anche le sentenze dei tribunali passano per un’opinione”. E così pure la verità, quella che ogni buon giornalista dovrebbe cercare di afferrare con il duro lavoro di ricerca dei fatti, perde ogni consistenza, ridotta anch’essa a mera opinione.

Quando potremo dire tutta la verità, non la ricorderemo più”, diceva Leo Longanesi. E come dargli torto?

Povera Patria

Si può morire di calcio? Spesso sì, anche qui in Italia, e dispiace. La morte di Gabriele Sandri, le immancabili polemiche relative agli sconsiderati spari del giovane poliziotto che hanno ucciso il povero Gabriele, a tratti danno la nausea.

Sono diversi anni, ormai, che non seguo più il calcio (nè alla tv nè allo stadio) - prima ero un grande tifoso del Milan - e a sentir parlare di questi tragici eventi, come la morte per esempio del carabiniere Filippo Raciti qualche mese fa durante una partita di calcio a Catania, la voglia di tornare ad interessarmi di pallone, di scommesse, di fantacalcio, sbiadisce sempre più.

Il video trovato su YouTube, con la struggente canzone di Franco Battiato, "Povera Patria", a fare da sfondo ad immagini che danno del calcio la peggiore delle sembianze, ci pone una domanda cruciale: "Cambierà, qualcosa cambierà?".