mercoledì 31 dicembre 2008

My Christmas library 2008

Adoro, a Natale, farmi regalare diversi libri. Credo sia il miglior dono che si possa ricevere, e anche fare. Questa la mia Christams library 2008, da divorare al più presto:

1) Dopo lunga e penosa malattia di Andrea Vitali (già letto, e anche recensito)
2) Cattedrale di Raymond Carver
3) La ragazza dai capelli strani di David Foster Wallace
4) La via dello Zen di Alan W. Watts
5) Anatomia dell'irrequietezza di Bruce Chatwin
6) Refusi. Diario di un editore incorreggibile di Marco Cassini
7) Italians di Beppe Severgnini (lo sto leggendo ora)

Saviano e Obama, voci del 2008

Il programma di Radio3 dedicato ai libri, Fahrenheit, ha lanciato un sondaggio sui suoni e le voci più rappresentative del 2008. In lizza abbiamo l'emergenza rifiuti, Roberto Saviano che fa i nomi dei camorristi ancora latitanti, la crisi economica che ha sconvolto tutto il pianeta globalizzato, il padre di Eluana Englaro che spiega le ragioni della sua difficile scelta, lo scrittore Mario Rigoni Stern, l'attentato terrorista a Mumbay, l'Onda degli studenti e l'indimenticabile Yes, we can del neopresidente americano Barack Obama. Io voto per Saviano e Obama, due voci tanto lontane quanto vicine per lo stesso, immenso coraggio civile che ispira le loro parole e i loro pensieri.

martedì 30 dicembre 2008

Neil Young - One of these days

One of these days,
I'm gonna sit down and write a long letter
to all my good friends I've known.
One of these days, one of these days,
one of these days, and it won't be long.

lunedì 29 dicembre 2008

Cinema alla radio

E' sempre bello scoprire cose nuove. Mi è capitato in questi giorni di festività natalizie con la mitica Radio3, che ogni giorno riesce a sorprendermi con programmi culturali di prima qualità, su tutti Fahrenheit dedicato al mondo dei libri. Ma anche Hollywood Party, che ogni domenica ripropone un classico del cinema da sentire alla radio, non è niente male. L'ultima puntata era dedicata allo splendido Amarcord di Federico Fellini. Certo che ascoltare un film è davvero strano, senza poter vedere nemmeno un'immagine, ma il fascino dei suoni è altrettanto suggestivo. Devo ammettere di essermi commosso quando ho potuto (solo) ascoltare l'indimenticabile scena del passaggio del transatlantico Rex. Mi sono sentito un po' come il personaggio cieco che chiede agli altri "com'è? com'è? com'è?". Guardare (e ascoltare) per credere.

Progetta il tuo stage in Europa

Avete in mente di allargare i vostri orizzonti, magari unendo l'utile al dilettevole? Provate a leggere un po' qui.

domenica 28 dicembre 2008

Revolutionary Road - La famiglia secondo Yates


"Non scrivo altro che della famiglia", disse Elizabeth Cox a Richard Yates, che stava aiutando la scrittrice per l'editing del suo primo romanzo "Familiar Ground". "Non c'è altro di cui scrivere", rispose Yates. E ora che sta per uscire nelle sale americane per DreamWorks, il prossimo 26 dicembre (in Italia, il 30 gennaio 2009), il nuovo film di Sam Mendes, ispirato proprio al capolavoro dello scrittore americano - Revolutionary Road - quella battuta di Yates sulla famiglia come fulcro dell'esistenza ci spiega tanto del suo autore, quanto del film che vede protagonista una delle coppie più belle della storia del cinema. Leonardo DiCaprio e Kate Winslet, gli indimenticati Jake e Rose di "Titanic".

La storia interpretata dai due attori nominati all'Oscar parla di una giovane coppia della middle class americana, Frank e April Wheeler, che cerca di realizzare i propri sogni in una società troppo conformista per le loro ambizioni giovanili. Ben presto, però, si vedranno intrappolati in un mondo fatto di illusioni tramutatesi in menzogne, facendo perder loro quel poco di speranza che li aveva tenuti in qualche modo uniti.

Nel bel trailer italiano, che è già possibile ammirare in attesa dell'uscita del film a gennaio distribuito dalla Universal Pictures, vediamo i due protagonisti parlare delle proprie ambizioni, lei aspirante attrice che non ha mai varcato i confini americani, lui speranzoso di "sentire le cose veramente", di viverle a pieno senza lasciarsele sfuggire di mano.

"Penso che tu sia la persona più interessante che abbia mai conosciuto", dice April a Frank, e l'amore tra i due cresce a poco a poco sullo schermo. La coppia decide così di trasferirsi in una grande casa lontani dalla città, per cominciare insieme a pensare alla famiglia e ai bambini che verranno. Il cambiamento è alle porte, "nulla è per sempre" dice Frank ad April nel momento in cui le loro vite sembrano svoltare in Revolutionary Road, la strada delle nuove occasioni cui aggrapparsi per non perdere la speranza. Ma ben presto, una volta che la routine quotidiana prende il sopravvento su ogni ora del loro tempo, quando tutto intorno sembra sin troppo perfetto, è proprio in quella apparente perfezione che si celano i semi della profonda insoddisfazione della coppia.

La vita è monotona, il lavoro insoddisfacente, le ambizioni di una volta ormai perdute nei meandri di un tempo che non tornerà più come la loro giovinezza. "Un uomo ottiene solo un paio di occasioni nella vita", si sente dire Frank, e "dopo un po' si ritrova a chiedersi come è diventato una seconda scelta". Sono più le occasioni perse che quelle sfruttate, e tra i due la felicità non sembra essere più di casa, le tensioni crescono, le ipocrisie sono nascoste ma presenti. "Dobbiamo essere uniti, è la nostra unica occasione", dice April a Frank, ma ci riusciranno davvero?

"Non voglio il successo, voglio lettori", confessò Richard Yates allo scrittore Andre Dubus. Ora il grande autore americano avrà anche degli spettatori, in attesa del film Revolutionary Road firmato dal regista premio Oscar (per "American Beauty") Sam Mendes. Non poco per un libro di culto nominato da Time tra i "100 Best Novels in English", che fece dire al drammaturgo Tennessee Williams: "Se nella letteratura americana moderna ci vuole qualcos'altro per fare un capolavoro, non saprei dire cosa".

mercoledì 24 dicembre 2008

Waiting for the Oscar...

A change is gonna come

Christian Rocca e Cataldo Intrieri ci spiegano perché "la vittoria di Obama non è giunta all’improvviso, non è stato un colpo di fortuna, è un successo conquistato quarant’anni fa, arrivato nella testa di una nazione, prima ancora che nelle urne, grazie alle sue musiche, ai suoi ritmi, alla sua anima". Come scrisse Sam Cooke, A change is gonna come.

Merry Christmas 2008

SOMEBODY TO STAND BY US...

lunedì 22 dicembre 2008

Aspettando i Golden Globe, con un occhio agli Oscar

La lunga corsa verso gli Oscar 2009 è appena iniziata. Ad aprire le danze delle nomination, come ogni anno, sono arrivate le candidature dei Golden Globe, i premi assegnati dall'associazione della stampa straniera, primo banchetto di prova per quei film che, molto probabilmente, si ritroveranno in gara anche alla serata più ambita, quella appunto degli Oscar. Vediamo nei particolari quali sono le opere e gli attori nominati.

Nella categoria "Miglior film drammatico", abbiamo Lo strano caso di Benjamin Button con un inedito Brad Pitt nel ruolo di un personaggio che invecchiando ringiovanisce; Frost/Nixon, la nuova pellicola di Ron Howard sullo storico "scontro" televisivo tra il giornalista britannico e l'ex presidente americano; Revolutionary Road di Sam Mendes, che riporta insieme sullo schermo la coppia DiCaprio/Winslet dopo il grande successo di Titanic; The Millionaire di Danny Boyle, che con una regia davvero coinvolgente segue la storia di un ragazzo povero di Bombay alla ricerca dell'amore perduto. In lizza anche il film sull'Olocausto The Reader, con una scabrosa Kate Winslet.

Per quanto riguarda, invece, la lista delle migliori commedie (o musical) in gara per i Golden Globe, da ricordare Burn after reading dei fratelli Coen, In Bruges con Colin Farrell, Mamma mia! con una straripante Meryl Streep, Vicky Cristina Barcellona dello "spagnoleggiante" Woody Allen e, dulcis in fundo, La felicità porta fortuna di Mike Leigh per il quale sentiamo di sbilanciarci a favore. Gara aperta anche per il miglior regista: Danny Boyle per The Millionaire, Stephen Daldry per The Reader, David Fincher per Lo strano caso di Benjamin Button, Ron Howard per Frost/Nixon e Sam Mendes per Revolutionary Road.

Veniamo poi al capitolo migliori attori e attrici, a dire il vero un po' confusionario. A differenza degli Oscar, infatti, da un lato abbiamo le performance di attori/attrici in film drammatici, e dall'altra le interpretazioni di attori/attrici in commedie (o musical). Nel primo caso, per quanto riguarda gli attori "drammatici", da sottolineare la presenza di Sean Penn per l'atteso film Milk di Gus Van Sant, dove l'attore interpreta il primo politico dichiaratamente omosessuale candidatosi negli Stati Uniti, in gara con Brad Pitt (Lo strano caso di Benjamin Button), Leonardo DiCaprio (Revolutionary Road), Frank Langella (Frost/Nixon) e il rinato Mickey Rourke, pugile in discesa nel film The Wrestler. Tra le attrici "drammatiche", invece, ci sono Anne Hathaway ("Rachel sta per sposarsi" di Jonathan Demme), Angelina Jolie ("Changeling" di Clint Eastwood), Meryl Streep (Doubt), Kristin Scott Thomas (I've loved you so long) e Kate Winslet (Revolutionary Road).

Per le migliori interpretazioni in commedie (o musical), tra gli attori abbiamo Javier Bardem (Vicky Cristina Barcellona), Colin Farrell e Brendan Gleeson (In Bruges), James Franco (Strafumati), Dustin Hoffman (Last chance Harvey). Tra le attrici, Rebecca Hall (Vicky Cristina Barcellona), Sally Hawkins (La felicità porta fortuna), Frances McDormand (Burn after reading), Meryl Streep (Mamma mia!) ed Emma Thompson (Last chance Harvey). Come attori non protagonisti, tra gli uomini sono stati nominati Tom Cruise e Robert Downey jr. (Tropic Thunder), Ralph Fiennes (La duchessa), Philip Seymour Hoffman (Doubt) e Heath Ledger (Il cavaliere oscuro). Tra le donne, invece, Amy Adams e Viola Davis (Doubt), Kate Winslet (The Reader), Penelope Cruz (Vicky Cristina Barcellona) e Marisa Tomei (The Wrestler).

In conclusione, apriamo una parentesi sui film d'animazione - in gara Bolt, Kung Fu Panda e il sorprendente Wall-E" - e sulle candidature per il miglior film straniero, che quest'anno interessa anche la nostra Italia cinematografica. Insieme a La banda Baader Meinhof (Germania), ad Everlasting moments" (Svezia/Danimarca), ad I've loved you so long (Francia) e a Valzer con Bashir (Israele), ci sarà il regista Matteo Garrone con Gomorrah, così tradotto oltreoceano dove si spera possa portare a casa, il prossimo 11 gennaio, l'ambito Golden Globe, con un occhio magari anche alla prossima serata degli Oscar. Incrociamo tutti le dita.

domenica 21 dicembre 2008

Listening to...Jim Boggia

Ne volete sentire altre? Cliccate qui, e buon ascolto.

Cercasi consigliere d'orientamento

Date un'occhiata a cosa fanno in Svizzera per guidare i ragazzi dalla scuola all'università fino al lavoro che svolgeranno da grandi. E non è detto che tutti debbano andarci, all'università. Spunti per una (vera) riforma?

IL FILM: Il giardino di limoni


Tanti alberi di limoni per sperare ancora una volta in una pace - quella tra israeliani e palestinesi - troppo proiettata in là nel tempo, nonostante le innumerevoli vittime innocenti da una parte e dall'altra della terra santa. A parlarcene è il regista Eran Riklis, nato a Gerusalemme, cresciuto tra gli Stati Uniti, il Canada e il Brasile, e diplomatosi alla National Film School di Beaconsfield, in Inghilterra. Lo fa nel suo nuovo film Il giardino di limoni, già vincitore del Premio del pubblico all'ultimo Festival di Berlino e con sette candidature (più un premio) agli Israeli Film Academy Awards.

Una pellicola che attraverso una storia semplice ci fa piombare nell'insensato conflitto israelo-palestinese, un conflitto che travolgerà la vita di Salma Zidane (interpretata da Hiam Abbas), vedova palestinese insediata in un piccolo villaggio della Cisgiordania, dove sarà costretta ad ingaggiare una battaglia giudiziaria con il ministro della difesa israeliano, da poco trasferitosi insieme alla moglie Mira vicino al suo giardino di limoni. Il servizio di sicurezza deciderà ben presto l'abbattimento di tutti gli alberi, troppo pericolosi per l'incolumità del politico israeliano. Ma la donna non si arrenderà così facilmente, pronta a combattere da sola per il proprio giardino, perché quegli alberi - piantati dal padre cinquanta anni prima - sono tutta la sua vita, la sua storia e il suo futuro. A difenderla interverrà un giovane avvocato, Ziad Duad, che porterà il caso della donna palestinese dinanzi alla Corte suprema di Israele.

Durante le ricerche per il film, dice il regista, "mi sono imbattuto in diversi processi di palestinesi contro lo Stato di Israele" e "mi è sembrato molto interessante che loro possano presentarsi davanti alla Corte Suprema: evidentemente il sistema giudiziario israeliano funziona". "La storia è semplice e racconta le vicende di persone che si ritrovano a combattere su questioni che potrebbero essere risolte più facilmente se solo ci si ascoltasse l'un l'altro", continua Eran Riklis, che ha reso il giardino di limoni il testimone privilegiato della follia di tutto il Medio Oriente. "Gli alberi, in fondo, sono sempre stati là a testimoniare quello che l'uomo stava facendo", osserva il regista israeliano, e il film, pur toccando tasti politici, "non è politico, parla di gente intrappolata nei lacci della politica, il ministro, sua moglie, l'avvocato, tutti intrappolati tra le loro vite e la situazione pubblica". E il crescente rapporto di solidarietà femminile che s'instaurerà tra Sama e Mima, la moglie del ministro, sta lì a mostrare la speranza del regista in una possibile pacificazione tra due personalità, una donna palestinese e una israeliana, come tra due nazioni destinate comunque a convivere, nel bene e nel male, in una stessa terra.

IL FILM: Si può fare


Si può fare di Giulio Manfredonia, presentato all'ultimo Festival Internazionale del Film di Roma, è la classica pellicola che non ti aspetti. Compri il biglietto, ti siedi in sala, ma mai e poi mai ti aspetteresti quello che alla fine della proiezione si può senza mezzi termini considerare proprio un buon film. Almeno questa è la sensazione dello spettatore dopo aver assistito ad una pellicola (italiana) genuina, simpatica e mai banale, malinconica e a tratti straziante. Già il titolo accattivante (Si può fare), a riecheggiare il famoso motto (Yes, we can) del neopresidente americano Barack Obama, sta lì a dimostrarci quanto la speranza e la creatività siano importanti nella vita per raggiungere i propri obiettivi.

Lo sa bene Nello (interpretato da un intenso Claudio Bisio), sindacalista alle prese – siamo agli inizi degli anni '80 - con un sindacato un po' retrogrado rispetto alle sue moderne idee circa l'importanza da dare, anche a sinistra, al libero mercato. Proprio per questo suo spirito indipendente verrà allontanato e costretto a lavorare in una cooperativa (per modo di dire) di malati mentali. In effetti nessuno sembra capace di fare alcun lavoro, ma Nello non si dà per vinto. Con tanta pazienza comincia a fare conoscenza con tutti i nuovi colleghi per iniziare a stimolarli alla sua maniera, trattandoli come semplici esseri umani. Così, riunione dopo riunione, dove ogni socio della cooperativa può liberamente fare le proprie proposte, si arriva a una decisione comune: tutti insieme decidono di cominciare a lavorare il legno. Nasce così l'"Antica Cooperativa 180" che ben presto si specializzerà nell'installazione di parquet molto originali grazie all'utilizzo del legno di scarto, e dando vita a composizioni irregolari davvero artistiche, frutto della sola immaginazione del gruppo.

Per la serie "Siamo pazzi, mica scemi", come poi dirà uno di loro, Luca, all'incredulo Nello. Ha inizio così un'avventura a tratti fiabesca in un universo a noi sconosciuto, quello dei malati di mente che dopo la legge Basaglia (con la chiusura dei manicomi) si ritroveranno soli in balia della propria schizofrenia. E grazie alla sensibilità del regista e degli sceneggiatori, nonché dello straordinario cast di attori, il tutto ci appare credibile anche se non tratto da una storia vera in particolare, avendo attinto informazioni da più vicende realmente accadute.

Un film in perfetto stile obamiano, dunque, a dimostrazione del fatto che quando il cinema italiano riesce a rappresentare la realtà con occhio spensierato, e senza le solite banalità tipiche dei cinepanettoni natalizi, è ancora un gran bel cinema.

sabato 20 dicembre 2008

Leggere per cambiare

Roberto Saviano ha tenuto una appassionata lezione agli studenti di Roma Tre, e lo scrittore Roberto Cotroneo ne ha scritto mirabilmente su l'Unità, ponendosi dalla parte di quei giovani, alcuni dei quali forse non hanno nemmeno letto Gomorra, asserragliati nell'aula magna dell'università. E Cotroneo, immedesimandosi in quei ragazzi vogliosi di un contatto diretto, più umano, con l'autore napoletano che ha osato sfidare la camorra con la sola forza della parola scritta, si chiede: "Perché se qualcuno scrive di questi orrori, questi orrori debbono permanere? Perché la letteratura non è salvifica, per una volta? E perché la scrittura non aiuta? Perché la denuncia non dà i suoi frutti? Perché Gomorra non ci ha liberati dal male, quasi fosse un libro sacro?". La risposta forse Saviano la conosce, "e lui, mentre lascia l’aula tra gli applausi, ormai lo sa, e sembra dirlo a tutti loro in silenzio. È un cammino lungo, fatto più di domande vere che di risposte. Per una platea che non sa quanto i libri non siano altro che domande senza risposte. Perché le risposte arrivano sempre dopo, e solo se i libri sono capaci di cambiarti davvero. Gomorra può essere uno di questi libri".

Non ci resta che ridere...

Sul sempre più disastrato Partito democratico dovremmo tutti quanti stendere un velo pietoso, ma in tempi già di per sé duri non ci resta altro da fare che riderci sopra. Come? Semplice. Provate a leggere quanto scrive su La Stampa Massimo Gramellini, che sa usare con rara arguzia la penna, a proposito della direzione del Pd: "Con le dimissioni di Sergio Chiamparino da ministro-ombra delle riforme, rassegnate polemicamente alla luce del sole e amichevolmente rientrate quando già erano calate le tenebre, stava per entrare in crisi il governo-ombra del presidente del Consiglio-ombra Walter Veltroni, altrimenti detto Ombrelloni. Non era mai successo nella storia dell’umanità che un governo-ombra rischiasse di cadere prima del governo vero, e questo conferma la novità del partito democratico, che riesce a prefigurare scenari politici ignorati persino dalle profezie di Nostradamus". Da non crederci, vero?

Mani pulite alla rovescia

Ripropongo l'attacco di un pezzo scritto da Giovanni Bianconi, pubblicato sul Corriere della Sera del 18 dicembre, a proposito della bufera giudiziaria che si sta scatenando sul mondo politico partenopeo. "Questa storia si può leggere come una Mani pulite alla rovescia", scrive il giornalista del Corsera, "perché quindici anni fa si scoprì che i politici comandavano sugli imprenditori, mentre ora sono gli imprenditori a dare ordini ai politici e li tengono al loro servizio". Continua poi Bianconi, riportando quanto scrivono nell'atto d'accusa i pm napoletani: "«Se l' indagine Mani pulite aveva portato alla luce un "sistema" in cui l'anello forte erano i rappresentanti della classe dei partiti tesi a soddisfare le loro "esigenze economiche", nella presente indagine si è potuto accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che sono costoro ad essere al soldo dell' imprenditore, il quale è colui che dirige la loro azione e che "detta" finanche la linea politica e programmatica che i rappresentanti dei partiti fedelmente attuano». Frasi che fanno, a dir poco, rabbrividire.

giovedì 18 dicembre 2008

Mi ha letto nel pensiero...

Sfogliando la rassegna stampa del giorno, mi imbatto in questo illuminante articolo di Lucia Annunziata su La Stampa, a proposito del ruolo che Di Pietro sta giocando nell'affondare pian piano le residue forze elettorali del Partito democratico. Inizia così, il pezzo: "E se fosse proprio Di Pietro il leader che gli elettori del Pd vorrebbero?". Una provocazione - è vero - ma di quelle che fanno pensare parecchio.

Person of the Year 2008

Quale parità tra uomo e donna?

Condivido in pieno quello che scrive Christian Rocca a proposito dell'equiparazione dell'eta pensionabile tra uomo e donna. La vera parità, come dice appunto il giornalista del Foglio, è questa: "...credo sia giusto che le donne abbiano diritto a un risarcimento alla fine della loro carriera lavorativa, non perché vittime della cultura maschilista eccetera, ma perché generalmente a un certo punto fanno figli e, a differenza degli uomini, se ne occupano e li crescono, rinunciando temporaneamente alla carriera. E prima di fare i figli, proprio perché potrebbero farli, tendono a fare meno carriera rispetto ai maschi che ora non hanno nemmeno l’impedimento del militare obbligatorio. Mi pare quindi giusto ricompensarle a fine carriera di quei tre o quattro anni dedicati a gravidanza e figli. Questa è la vera parità. Semmai alzerei l’età pensionabile a tutti, ma questa è un’altra cosa". D'accordissimo!

martedì 16 dicembre 2008

A Faber, dall'altra parte del vento

Esce, a 10 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè, il cofanetto (con tre inediti) "Effedia - Sulla mia cattiva strada ". C'è anche il dvd dell'omonimo documentario di Teresa Marchetti, che ho avuto la fortuna di vedere in anteprima allo scorso Festival Internazionale del Film di Roma. A due lustri dalla scomparsa di Faber, però, vorrei ricordare anche il meraviglioso omaggio di Massimo Bubola - con l'album Dall'altra parte del vento - che potete ascoltare nel video.

Questa non la sapevo...

L'avevate sentita questa barzelletta su Dick Cheney, anche se sembra sbeffeggiare di più George W. Bush? “Mr. Cheney, com’è la vita da numero 2? Non so, chiedete a Bush”. Ne parla Christian Rocca, giornalista del Foglio, sul suo blog.

A proposito di W...

Una sola considerazione sull'amara visita in Iraq di Bush (l'ultima del suo mandato presidenziale): ha proprio dei riflessi da felino il nostro caro W. Guardate un po' qui. E' riuscito a schivare ben due scarpe lanciategli da un infuriato giornalista iracheno, che ora rischia sette anni di carcere, durante una conferenza stampa a Bagdad. E' la democrazia, bellezza!

lunedì 15 dicembre 2008

Che mondo sarebbe se...

Cosa vorrebbero trovare sotto l'albero di Natale gli italiani? Un libro, ci dicono i dati di un'indagine Findomestic, che va così a cozzare contro l'allergia ai libri tipica del nostro Paese, che ha un mercato della lettura inferiore di ben 15-30 punti rispetto a quello francese e spagnolo. Allora mi chiedo, in questi giorni natalizi: ma che mondo sarebbe se ognuno di noi regalasse ai propri cari soltanto un libro? Sarebbe un mondo diverso e più tollerante? Forse è solo una mia illusione, chissà...

Avanti il prossimo (camorrista)

Leggete questo "delizioso" (e a tratti disturbante) Dialogo semiserio fra un PM e un camorrista pubblicato sul blog collettivo Nazione Indiana. C'è molto da imparare per chi non l'avesse già fatto, e c'è anche molto da ricordare per chi invece avesse solo dimenticato a causa dei sempre più frequenti momenti di "amnesia" nazionale.

Saviano in Svezia tra i fantasmi del Nobel

"La differenza fra me e Rushdie è questa: lui condannato da un regime che non tollera alcuna espressione contraria alla sua ideologia; mentre laddove la censura non esiste ciò che ne prende le veci è la disattenzione, l'indifferenza, il rumore di fondo del fiume di informazioni che scorrono senza avere capacità di incidere". Lo scrive Roberto Saviano su La Repubblica ricordando ai propri lettori cosa si prova a parlare nella culla che, in passato, ha premiato grandi scrittori con l'ambito premio Nobel. Con lui c'era anche Salman Rushdie, che gli ha confidato: "Continua ad avere fiducia nella parola, oltre ogni condanna, oltre ogni accusa. Ti daranno la colpa di essere sopravvissuto e non morto come dovevi. Fregatene. Vivi e scrivi. Le parole vincono". Grazie Roberto, grazie Salman.

giovedì 4 dicembre 2008

For Pakistan's sake

Thomas Friedman ci ricorda, dalle colonne del New York Times, cosa accadde subito dopo la pubblicazione in Danimarca di alcune vignette satiriche su Maometto: grandi proteste in tutto il mondo musulmano, compreso il Pakistan. Si chiede allora Friedman: "Chi nel mondo musulmano, e in Pakistan, è pronto ora a scendere in piazza contro l'assassinio in massa di persone vere, e non di disegni, nella vicina Mumbai?". "Sto ancora sperando", prosegue l'editorialista americano, "in una grande dimostrazione della popolazione pakistana contro gli attacchi a Mumbai, nè per me nè per l'India, ma per il bene del Pakistan stesso". "Questo tipo di violenza omicida", conclude Friedman, "potrà finire solo quando tutto il Paese - le brave persone in Pakistan, compresa la comunità dei più anziani e dei leader spirituali che desiderano un futuro migliore per la loro nazione - dichiarerà, in quanto collettività, che coloro si macchiano di tali assassinii sono vergognosi miscredenti che non danzeranno insieme alle vergini in Paradiso ma bruceranno all'inferno". Parole sante!

di Thomas L. Friedman (The New York Times)

On Feb. 6, 2006, three Pakistanis died in Peshawar and Lahore during violent street protests against Danish cartoons that had satirized the Prophet Muhammad. More such mass protests followed weeks later. When Pakistanis and other Muslims are willing to take to the streets, even suffer death, to protest an insulting cartoon published in Denmark, is it fair to ask: Who in the Muslim world, who in Pakistan, is ready to take to the streets to protest the mass murders of real people, not cartoon characters, right next door in Mumbai? (...)
I am still hoping — just once — for that mass demonstration of “ordinary people” against the Mumbai bombers, not for my sake, not for India’s sake, but for Pakistan’s sake. (...)
We know from the Danish cartoons affair that Pakistanis and other Muslims know how to mobilize quickly to express their heartfelt feelings, not just as individuals, but as a powerful collective. That is what is needed here. Because, I repeat, this kind of murderous violence only stops when the village — all the good people in Pakistan, including the community elders and spiritual leaders who want a decent future for their country — declares, as a collective, that those who carry out such murders are shameful unbelievers who will not dance with virgins in heaven but burn in hell. And they do it with the same vehemence with which they denounce Danish cartoons.

venerdì 28 novembre 2008

Bombs and bullets cannot destroy India

Sparare addosso agli indiani musulmani sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Troppo semplice e sbrigativo pur di non fermarsi a pensare ad una spiegazione plausibile e ragionata dei tragici eventi letteralmente esplosi in quel di Mumbai, in India. E come ha scritto dalle colonne del Guardian Shashi Tharoor, "le bombe e le pallottole non possono distruggere l'India, ma ciò che può distruggerla è un cambiamento nello spirito della sua gente, volto al pluralismo e alla coesistenza che restano il nostro punto di forza". Vero, verissimo, quant'è vero che "se questi tragici eventi porteranno alla demonizzazione dei musulmani dell'India", conclude Tharoor, allora sì che "i terroristi avranno vinto". Che la democrazia indiana si apra ancor di più al mondo, e non viceversa, è la nostra speranza affinchè l'ideologia distruttiva dei terroristi possa essere prima o poi sconfitta.

di Shashi Tharoor (The Guardian)

In its meticulous planning and military precision, the assault on Mumbai bore no trace of what its promoters tried to suggest it was - a spontaneous eruption by angry young Indian Muslims. This horror was not homegrown. (…) Bombs and bullets alone cannot destroy it. (…) But what can destroy India is a change in the spirit of its people, away from the pluralism and coexistence that has been our greatest strength. (…) If these tragic events lead to the demonisation of the Muslims of India, the terrorists will have won. For India to be India, its gateway - to the multiple Indias within, and the heaving seas without - must always remain open.

lunedì 24 novembre 2008

A Case for Change

Al The Economist non è sfuggito il bel film italiano diretto da Paolo Virzì, "Tutta la vita davanti". Non a caso ne ha fatto cenno in un articolo pubblicato in merito alle proteste studentesche contro la riforma dell'università del ministro Gelmini, sottolineando (giustamente) il fatto che l'età di pensionamento per i professori è di ben 72 anni, mentre la Gelmini ne ha proposto l'abbassamento (solo) a 70 anni. Un piccolo passo, dice l'Economist, verso un insieme di altre riforme da apportare "a uno dei settori più corrotti in Italia". Avete capito bene, "most corrupt".
“TUTTA LA VITA DAVANTI” (“Your Whole Life Ahead”), a recent Italian movie, opens with the voice of a young woman defending her thesis. The camera dwells on one wrinkled visage after another, until it becomes clear that the entire examining board is made up of octogenarians—and a chuckle of cynical recognition runs through the cinema audience. The retirement age for Italian university teachers is 72. Mariastella Gelmini, education minister in Silvio Berlusconi’s right-wing government, plans to reduce it, though only to 70. And this is just one of a host of reforms she is seeking to make to one of the worst managed, worst performing and most corrupt sectors in Italy.

domenica 23 novembre 2008

Obama and the Myth of the Black Messiah

Se davvero sono le persone a creare le condizioni per la presenza di un (nuovo) leader sul palcoscenico della politica, allora per l’Italia – impossibilitata ad averne uno altrettanto nuovo come Barack Obama negli Stati Uniti – non c’è altro da incolpare che il popolo italiano stesso. Se non cambieremo noi tutti, e il nostro modo di partecipare alla formazione di un’autentica opinione pubblica, non cambieranno neanche i nostri pseudo-rappresentanti in Parlamento. Amara verità con cui dovremo, prima o poi, fare i conti.

by Ta-Nehisi Coates (Time)
The truth is that the people create the conditions for the leader, not the other way around. Obama isn't bringing moral values to the black community; he's responding to the community's own innate, quasi-conservative embrace of those values. Thus the question of what Obama has to teach black people is exactly backward. The real question is what black people, through Barack Obama, have to show America and the world.

Waiting for "The Wrestler"

Un grande Mickey Rourke ritornato alla ribalta delle scene cinematografiche con questa sua straordinaria interpretazione, e un altrettanto intenso Bruce Springsteen che ha firmato la colonna sonora dell'atteso film The Wrestler. Guardate (e ascoltate) il trailer...

sabato 22 novembre 2008

IL FILM - Changeling

di Paolo Massa
Clint Eastwood è un vero maestro della Settima Arte. E con questo suo ultimo film, “Changeling”, lo dimostra ancora una volta pur non ripetendo il miracolo che gli riuscì con altre due splendide pellicole, “Mystic River” e “Million Dollar Baby”. Non convince a pieno, infatti, l’eccessiva spinta melodrammatica del finale, a tratti un po’ troppo dilatato nel tempo e ridondante. Ma la semplicità disarmante con la quale il regista americano riesce ogni volta ad essere classico e moderno al tempo stesso non manca mai di stupirci.
In questa sua ultima fatica dietro la macchina da presa è sempre la regia a mostrarci l’armonia classica grazie alla quale Eastwood sa trasmetterci il senso profondo di un’epoca (in questo caso l’America degli anni 20, poco prima della Grande Depressione), di un luogo, di un personaggio e quindi di una storia, che non si ferma mai ad una semplice ricostruzione dei fatti, immancabilmente tesa a riflettere anche sul nostro presente.
La storia (vera) che vede come protagonista una splendida Angelina Jolie (nei panni di Christine Collins) è ambientata in una apparentemente tranquilla Los Angeles del 1928, dove madre e figlio vivono la loro vita. Ben presto, però, un evento inatteso – la scomparsa del piccolo Walter Collins – farà piombare la povera madre in una disperazione senza appello, accentuata dalla condotta a dir poco scorretta del dipartimento di polizia di Los Angeles che pretenderà a tutti i costi di affidare alla signora Collins un bambino ritrovato spacciandolo deliberatamente per suo figlio.
La donna, confusa per lo shock di aver forse riavuto indietro l’amato Walter, crede alla versione della polizia pur essendo convinta (almeno all’inizio) che quel bambino non sia il suo bambino. Ma ormai sono trascorsi diversi mesi dalla scomparsa, e il ragazzino può anche aver subito qualche cambiamento. Dopo qualche giorno però la madre non ha più dubbi, quello di sicuro non è il suo Walter, e nel vano tentativo di dimostrarlo agli agenti di polizia finisce per essere presa per pazza e sbattuta illegalmente in un manicomio. Fortunatamente entra in gioco il pastore della comunità (un superbo John Malkovich) che approfitta della vicenda di Christine Collins per aiutarla ma anche per saldare i conti, una volta per tutte, con il corrotto e violento Los Angeles Police Department, denunciandone le malefatte dai microfoni della sua radio.
La pellicola ci mostra così, sequenza dopo sequenza, la discesa agli inferi di una donna che in nome di un sacrosanto diritto – pretendere che le indagini del figlio continuino – non perde mai quella speranza cui lo spettatore invece sembra non credere più. Ma la forza d’animo dell’eroina di Clint Eastwood (come per la pugile dell’insuperato “Million Dollar Baby”) diviene il simbolo tangibile di una resistenza che qualsiasi uomo (compresa una donna, e forse anche di più) può sbattere in faccia a quelle istituzioni (oggi come ieri) che non sempre lavorano al fianco del cittadino, cercando anzi di calpestarlo impunemente. E il volto segnato dal dolore e dalla speranza di un’agguerrita Angelina Jolie sta lì a dimostrarlo con tutta la sua forza dopo ben 80 anni dai fatti narrati.

IL FILM - La classe

di Paolo Massa
Non ci sono dubbi che il film “La classe” di Laurent Cantet, vincitore della Palma d’Oro al 61° Festival di Cannes, sia fondamentalmente un film politico. Non tanto perché mette in scena, insieme ai personaggi e alle loro storie, una precisa ideologia, ma proprio per non averlo fatto assume quella valenza politica capace di porre i responsabili francesi (ma non solo) delle politiche di immigrazione dinanzi alla mancata integrazione delle periferie (in questo caso) parigine. E quando tale scollamento sociale avviene dentro le mura di una scuola, e quindi tra ragazzi adolescenti, la denuncia di un film (o anche di un libro, essendo la pellicola basata sul romanzo omonimo dell’insegnante Francois Begaudeau) riveste un’importanza non più periferica, bensì nazionale se non proprio transnazionale.

I ragazzi-studenti-attori del film, infatti, pur parlando francese possono benissimo rappresentare la gioventù di tante altre nazioni alle prese, soprattutto negli ultimi anni di globalizzazione, con un’immigrazione che riempie le scuole del mondo di culture e tradizioni diverse e lontane al tempo stesso. Ci troviamo in un istituto della periferia parigina dove un professore di francese, interpretato dal vero professore Begaudeau (l’autore del libro), si cimenta con un gruppo di ragazzi che sembra davvero poco interessato ad apprendere i rudimenti della propria lingua. E qui sta il problema di fondo, sembra suggerirci il regista, quando si vede il professore chiedere ai suoi allievi di quale nazionalità si sentano e le risposte lasciano a dir poco esterrefatti.

In una classe composta in gran parte da ragazzi originari di altri paesi, nonostante siano nati in Francia, la maggior parte dichiara di sentirsi tutt’altro che francese, e di fronte all’impresa (impossibile?) di insegnar loro a parlare come si deve la lingua, il professore si scontra lezione dopo lezione contro un muro di diffidenza e indifferenza insormontabile. Ecco dunque scorgere la valenza profondamente simbolica del film, che già a partire dal sottotitolo (“Entre les murs”, dentro le mura) ci avverte della presenza metaforica di un ostacolo tanto invisibile quanto reale che non divide soltanto i luoghi dell’azione filmica (la classe, appunto) dal mondo esterno, ma sembra separare irrimediabilmente il professore dai suoi stessi alunni.
Un muro sociale difficile da buttare giù, e che come ogni muro impedisce quel dialogo tra culture indispensabile ad una società multiculturale tesa all’inclusione delle sue periferie. Quelle periferie, in fondo, che sono anche un po’ le nostre, o lo saranno molto presto. Un film coraggioso nel guardare con occhi diversi e sinceri alla realtà magmatica della scuola del XXI secolo.

IL FILM - Parigi

I film corali – alla Robert Altman, per intenderci – riescono (quasi) sempre a trasmetterci quelle sensazioni di vita freneticamente vissuta che altri film non riescono a fare così semplicemente. Ma ci vuole per l’appunto un Altman di turno per sentirsi davvero soddisfatti dopo la visione di un film del genere. Ecco perché il film Parigi, sulla falsariga delle pellicole che seguono contemporaneamente le storie di più personaggi che si incontrano (e scontrano) nel corso della narrazione, non coinvolge a pieno lo spettatore per l’incapacità di fondo di caratterizzare al meglio i vari personaggi della storia. Sembrano tutti un tantino finti e studiati a tavolino, privi di quella parvenza di realtà che ci permetterebbe di condividere a pieno le loro ansie, gioie, sofferenze e speranze. Perché guardare è condividere, nel bene e nel male.

venerdì 21 novembre 2008

La mia Gomorra

E' quasi trascorso un anno dalla mia laurea triennale - 24 novembre 2007 - e proprio in questi giorni mi appresto a scegliere la prossima tesi per la specialistica. In realtà lo so già. La mia Gomorra sarà, molto probabilmente, il pensiero fisso dei futuri mesi da laureando-bis. Il lavoro sarà duro, ma appassionante proprio come piace a me.

Grazie Mia, grazie Faber

Ecco cosa significa per me saper intepretare una canzone. Grazie Mia, grazie Faber...

giovedì 20 novembre 2008

Ho visto anche degli zingari felici

Luca Carboni insieme a Riccardo Sinigallia ha rispolverato questa bella canzone del grande cantautore Claudio Lolli. Sopra la versione originale. Sotto, invece, un'altra perla musicale di Lolli, la migliore canzone - a mio parere - dedicata al compianto Marco Pantani.

venerdì 14 novembre 2008

Il mio Festival

di Paolo Massa
Quasi dieci giorni di cinema. Oltre 20 film visti. Posso (quasi) dire di aver vissuto più al buio di una sala che alla luce. Come accreditato stampa per il sito web Whipart.it ho seguito il III Festival Internazionale del Film di Roma, che si è svolto all’Auditorium dal 22 al 31 ottobre 2008. E’ stata un’esperienza tanto elettrizzante quanto stancante, ma soprattutto è stata una vera e propria immersione nel mondo dei sogni della Settima Arte, quei sogni che paradossalmente più ci mostrano la realtà con occhi “fantastici” e più ce ne svelano il vero volto. Questo è il bello del (buon) cinema: darci la possibilità di vedere la realtà da punti di vista inediti e quindi capaci di coglierne il senso profondo. Nella vita vera la frenesia del quotidiano ci ingabbia nella sua inestricabile rete di impegni inderogabili; nella vita “cinematografica”, invece, le storie e i personaggi diventano il mezzo attraverso il quale il fluire - spesso senza senso – dei giorni assume una patina di certezza come se potessimo lanciare uno sguardo dall’alto sui pezzi di realtà rappresentati. Ma non sempre, però, il cinema ci dà quelle risposte alle domande che tanto ci intrigano in una storia, anzi gli interrogativi restano lì sullo schermo pronti a “tormentarci” anche fuori dalla sala. Accade così che il cinema e la realtà s’influenzino a vicenda, divenendo due facce della stessa meravigliosa medaglia.
P.S. qui sotto ci sono tutti gli articoli scritti per Whipart.it. Il mio film preferito? Due, in particolare: Man on Wire e When a man comes home.

mercoledì 5 novembre 2008

Il Sogno diventato Realtà


di Paolo Massa

Change has come to America”. Il cambiamento è arrivato in America, ha detto il nuovo (e primo) presidente afroamericano Barack Obama davanti alle migliaia di fan riunitisi al Grant Park di Chicago. Non l’ha detto solo a quelle persone però. Dicendolo si è rivolto concretamente anche agli altri cittadini degli Stati Uniti d’America, e simbolicamente a tutto il mondo globalizzato in trepidante attesa della sua elezione.

Alla fine Barack ce l’ha fatta, e insieme a lui ce l’hanno fatta tutti coloro che hanno creduto (a ragione) di scorgere nei suoi discorsi quel seme di cambiamento che si spera possa, nei prossimi quattro anni, far germogliare i frutti della speranza globale. Negli ultimi otto anni abbiamo vissuto esperienze dolorose e scioccanti, a partire dall’indelebile squarcio nei cieli di Manhattan quel maledetto 11 settembre 2001, quando noi tutti ci sentimmo americani.

Ben presto, però, quel senso di comunità ferita nel profondo sbiadì sotto le picconate ideologiche dell’amministrazione di George W. Bush, la quale si impelagò in un’assurda quanto inutile guerra in Iraq, distogliendo quelle forze che forse avrebbero permesso di catturare in Afghanistan lo sceicco del Terrore, Osama Bin Laden, reo confesso della strage al World Trade Center di New York.
Ora che Bush jr. & Co. hanno lasciato definitivamente la Casa Bianca - per la precisione questo avverrà il prossimo 20 gennaio quando Barack Obama giurerà come nuovo commander in chief - ci sarà da sperare in tutto quello in cui non si è potuto credere durante i tristi anni di governo repubblicano.
Change has come, dunque, e anche se per adesso questo cambiamento è ancora visibile solo in superficie, siamo lo stesso fiduciosi di scorgerlo, nel prossimo futuro, soprattutto nei fatti di una Storia che ieri, 4 novembre 2008, ha voltato finalmente pagina.

martedì 4 novembre 2008

What it means to be an American


Prima di sapere domani notte chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America, se Obama oppure McCain, e per concludere in bellezza questo finale di campagna elettorale made in Usa, credo che ascoltare Fareed Zakaria, a proposito di quello che ha detto Colin Powell nel suo endorsement a favore del senatore afroamericano, sia fondamentale per capire cosa significhi, o dovrebbe significare, ancora oggi essere americani. Fate attenzione alle parole di Colin Powell, and you'll understand what it means to be an American.

lunedì 3 novembre 2008

domenica 2 novembre 2008

Miracolo a Sant'Anna


di Paolo Massa

Con Miracolo a Sant’Anna, il nuovo (e primo) film di guerra di Spike Lee, il regista afroamericano che ha diretto in passato pellicole del calibro di La 25a ora e di When the leeves broke. A requiem in four acts - uno straziante omaggio agli sfortunati cittadini di New Orleans devastati dall’uragano Katrina - ritorna nelle sale con questa sua prima opera bellica ambientata principalmente nella Toscana del 1944 durante la Seconda guerra mondiale. La pellicola, a dire il vero, ha inizio nel 1984, quando vediamo un impiegato di colore delle poste di New York sparare senza esitazione ad un cliente che sta per spedire delle lettere.

Immancabili le polemiche qui in Italia subito dopo l’uscita del film, a causa della non particolarmente rosea rappresentazione che se ne dà della resistenza partigiana, ma l’autore mette subito in chiaro le cose spiegando con una didascalia introduttiva che il corpus della storia è basato unicamente sui fatti narrati da James McBride nel suo omonimo romanzo. Non si mette in dubbio, dunque, la verità storica della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, dove senza alcuna ragione le SS trucidarono il 12 agosto 1944 ben 560 persone, comprese donne e bambini, mentre nel film si ipotizza invece che l’eccidio fu frutto di una rappresaglia alle scorribande dei partigiani contro i soldati tedeschi.

La macchina da presa segue quattro soldati neri appartenenti alla 92° divisione Buffalo Soldiers dell’esercito statunitense, che dopo un violento conflitto a fuoco contro i crucchi riescono a fuggire, insieme a un bambino (Angelo) trovato ferito nei boschi intorno, rimanendo poi bloccati in un piccolo paese al di là delle linee nemiche. Da subito si comprende il punto di vista dal quale Spike Lee intende narrare la storia e la sua verità sui tanti, troppi soldati di colore mandati a morire durante la Seconda guerra mondiale. E soprattutto per questa scelta la pellicola ci appare un tantino di parte – neri buoni, bianchi cattivi – finendo per compiere lo stesso errore di cui era stato accusato Clint Eastwood, dallo stesso Spike Lee, per aver girato senza attori di colore il film bellico Flags of our fathers. Come dire: la guerra è (e dovrebbe) essere uguale per tutti, sia in vita che in punto di morte.

Una volta giunti nel paesino sperduto tra il fiume Serchio e le montagne, i quattro soldati cominciano a familiarizzare, non senza qualche difficoltà, con gli abitanti del posto, tra i quali si distingue la bella Valentina Cervi (che interpreta, un po’ sopra le righe, una ragazza troppo disinibita per i tempi che correvano all’epoca), e il sempre ottimo Pierfrancesco Favino nella parte di un partigiano alle prese con i rimorsi della propria coscienza.

Ma il vero mistero di tutta la storia resta quello legato al piccolo Angelo, un bambino che sembra parlare con un fantasma di nome Arturo (che nessuno vede e sente escluso lui), e a un frammento della statua di Sant’Anna che il soldato Sam Train, l’omone che instaura un rapporto molto affettuoso con il piccolo Angelo, si porta sempre dietro come un amuleto. Al termine della pellicola, però, la sensazione di aver assistito ad un film di guerra non particolarmente originale e un po’ troppo lungo si fa strada nella mente dello spettatore, che da uno Spike Lee in stato di grazia si sarebbe aspettato ben altro miracolo. Un vero miracolo.

Il ritorno a Roma dell'Arlecchino mascherato

Entrare nel mondo di Pablo Picasso vuol dire varcare la soglia al di là della quale non ci sono certezze di sorta, dove ogni opera sembra essere la conferma del passato dell’artista ma anche del suo futuro che, prima o poi, subirà una forte scossa di assestamento. E se quando parliamo di artista ci riferiamo al camaleontico Pablo Picasso, uno dei più rappresentativi e originali artisti del secolo breve, quel Novecento al quale ci sentiamo ancora tutti indissolubilmente legati, allora la meraviglia degli occhi dello spettatore è almeno pari alla capacità repentina di cambiamento che contraddistingue la poetica pittorica di Pablo Picasso.
Ecco perché il titolo della mostra - L’Arlecchino dell’Arte - inaugurata lo scorso 11 ottobre presso il Complesso del Vittoriano a Roma (e che vi resterà fino all’8 febbraio 2009) sembra essere perfettamente in sintonia con il sentire artistico del pittore spagnolo. Cambiare più volte identità, indossando a suo piacere i panni del cubista e del neoclassico, del surrealista e dell’espressionista, fanno di Picasso un autentico Arlecchino mascherato, pronto a sorprendere ogni volta in maniera diversa gli adoratori delle sue tele.
E anche la location di questa interessante mostra, Roma per l’appunto, assume un significato particolare alla luce dei 180 lavori esposti – tra oli, sculture e incisioni su carta – una parte dei quali fu realizzata proprio nella capitale durante il breve soggiorno (dal febbraio al maggio 1917) del pittore in Italia. Ecco dunque imbatterci, all’inizio della mostra, nella sgargiante e inafferrabile siluette La donna italiana, dipinta nel suo studio di Via Margutta, una decostruzione in stile cubista di una ragazza in vesti tradizionali, con sullo sfondo l’accenno semplice ma efficace della cupola di San Pietro.
Proseguendo nella rassegna ecco poi trovarci al cospetto del soggetto tematico dell’intera mostra, l’Arlecchino dipinto a Barcellona nel 1924, che sta lì a dimostrare ancora una volta l’eclettismo insito nell’essere-artista del pittore spagnolo. L’Arlecchino diviene così una metafora di colui che può diventare chiunque desideri, come Picasso poté dipingere, a suo piacimento, quadri cubisti e neoclassici (vedi Donna che legge), o anche astratti (Due donne davanti la finestra). Da qui possiamo dunque far risalire l’estrema elasticità delle figure ritratte dal pittore spagnolo, un’elasticità che si rifà al principio secondo il quale ogni cosa può diventare il segno di un’altra, e dove (come insegna l’astrattismo) basta anche qualche puntino al posto degli occhi per trasformare un triangolo in un volto.
Citando Picasso, “L’artista è un ricettacolo di emozioni venute da ogni parte: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una figura che passa, da una tela di ragno. Perciò l’artista non deve distinguere tra le cose. Per esse non esistono quarti di nobiltà”. Un po’ come Dio, che secondo il pittore spagnolo “non è che un altro artista. Egli ha inventato la giraffa, l'elefante e il gatto. Non ha un vero stile: non fa altro che provare cose diverse”. “Credo di sapere cosa si prova ad essere Dio”, confessò una volta Picasso, e dopo aver assistito a questa bella mostra romana ne comprendiamo ancora meglio le ragioni.

Burn After Reading

Dopo aver visto l’ultimo film dei fratelli Coen, Burn after reading – A prova di spia (ma non bastava lasciare il titolo originale?), ci sorge un dubbio: ma saremo davvero tutti così stupidi sulla faccia della Terra? Naturalmente la tesi del duo registico, fresco fresco di Oscar vinto grazie al grande film Non è un paese per vecchi, è una provocazione bella e buona. E durante i 95 minuti della pellicola, le avventure (e le disavventure) degli strampalati personaggi (tutti, non se ne salva uno) creati dai Coen sembrano stare lì apposta a confermare il loro pregiudizio.
La storia, a dir poco intricata, è questa: l’agente della CIA Osbourne Cox (interpretato da John Malkovich) viene licenziato a causa dei suoi trascorsi da alcolizzato, la moglie Katie (Tilda Swinton) lo tradisce con lo sceriffo federale Harry Pfarrer (George Clooney), un tipo fissato con il jogging e con relazioni sessuali (molto) altalenanti. Di personaggi ce ne sono ancora, ma il tutto parte dalla perdita di un cd nel quale l’ex agente Cox ha trascritto le sue memorie, e che finisce nelle mani di Linda (Frances McDormand) e Chad (Brad Pitt), due dipendenti di una palestra l’uno più strampalato dell’altro.
Lei alle ricerca disperata di un prestito per potersi permettere un’operazione di chirurgia plastica, e lui sempre lì pronto ad esibire il suo corpo atletico e il ciuffo a dir poco ribelle, con delle perenni cuffie nelle orecchie tanto per confermare – se ce ne fosse bisogno – la sua completa estraneità dalla realtà del mondo. Il personaggio sembra, infatti, un bambino un po’ troppo cresciuto (solo fisicamente, però). Quale migliore idea – pensano allora Linda e Chad – di ricattare il proprietario del cd in cambio di una lauta ricompensa?
Così ben presto i due si rendono conto di essersi immischiati in un gioco più grande di loro, dove alla fine dei conti non si sa bene se ha contato di più l’astuzia, la stupidità o il cinismo. Magari tutti e tre insieme. E questo sembra essere il maggior problema del nuovo film dei fratelli Coen, alle prese con un soggetto un po’ troppo confusionario, a tratti anche divertente ma di una comicità spesso alimentata artificiosamente da parolacce e da situazioni non particolarmente stuzzicanti. E al termine della storia uno si chiede: di sicuro registi, attori & troupe si saranno divertiti, ma noi invece?

Gone Baby Gone


di Paolo Massa

Avete amato senza sosta il capolavoro di Clint Eastwood Mystic River, e non vi siete più dimenticati la meravigliosa ambientazione in una torbida e fredda Boston? Vi siete chiesti a più riprese dove alberga la verità che ognuno di noi cerca disperatamente di afferrare per meglio comprendere i misteri delle proprie vite? Allora il sorprendente debutto alla regia di Ben Affleck, con il film Gone Baby Gone, tratto anch’esso, come Mystic River, da un romanzo di Dennis Lehane (La casa buia, Piemme edizioni), farà di certo al caso vostro.

Una bambina è misteriosamente scomparsa, si chiama Amanda McCready, ha solo quattro anni e si è letteralmente volatilizzata nel malfamato quartiere di Dorchester, a Boston, dove viveva insieme alla madre e ai nonni. Subito i mezzi di informazione, televisione in primis, si lanciano sulla notizia, stazionando giorno e notte di fronte alla casa della famiglia McReady. Il caso diventa di interesse pubblico, e la polizia, con a capo il capitano Jack Doyle (Morgan Freeman), cerca in tutti i modi di trovare qualche indizio utile alle indagini. Intanto vengono assunti dalla nonna della bambina anche due agenti privati, specializzati nel ritrovamento di persone scomparse, interpretati da Casey Affleck (fratello di Ben) nei panni di Patrick Kenzie e da Michelle Monaghan nel ruolo di Angela Gennaro.

Patrick e Angela sono fidanzati, ma non sanno se accettare o meno il caso della piccola Amanda, sconvolti anche loro in prima persona dalla tragica vicenda. Da subito, dunque, non appena la coppia decide di seguire qualche pista per ritrovare la bambina, si comprende che il film è tutto incentrato sull’eterna lotta tra bene e male, tra verità e menzogna, e nella ricerca affannosa di quella verità da tutti tanto anelata, ci si imbatterà in segreti che non avrebbero dovuto essere svelati. E i personaggi in prima persona, di fronte a scelte che metteranno a dura prova la loro capacità di discernere tra giusto e sbagliato, dovranno fare i conti con se stessi.
Questo ci sembra il maggior pregio della pellicola, uscita in Italia lo scorso aprile ma quasi invisibile nelle nostre sale: pensate che nel Regno Unito il film fu posticipato da dicembre 2007 a giugno 2008 per paura di troppi evidenti richiami della storia alla vicenda (vera) della scomparsa di Madeleine McCann. Una pellicola che non lascia spazio alcuno a consolazioni dell’ultima ora, anche perché quando si è costretti, in questo caso dalla propria coscienza, a prendere decisioni sì giuste ma pur sempre dolorose, ognuno sarà consapevole, come lo è Patrick Kenzie, di dover alla fin fine rinunciare ai propri desideri che spesso cozzano con la cosa giusta da fare. Quale strada imboccare? Un film da non perdere.

sabato 1 novembre 2008

La nuova Londra

La nuova Londra di Marco Niada, giornalista de Il Sole 24 Ore, è un libro (come dice il sottotitolo) sulla Capitale del XXI secolo, dove già a partire dai numeri restiamo meravigliati. Come potrebbe essere diversamente in una città con 7,6 milioni di abitanti, che entro il 2011 supererà anche gli 8 milioni? Senza contare che Londra, “dove si parlano 300 lingue e abitano persone provenienti da 90 paesi”, scrive Niada, “è sede di ben 175 ambasciate su 191 paesi membri delle Nazioni Unite”. In perfetto stile global.
D’altra parte, come ben ci spiega a suon di numeri Marco Niada, la forza di Londra è proprio questa: “facendo leva su un’apertura totale, sulla lingua inglese, ponendosi come ponte tra Oriente e Occidente, rivisitando e rafforzando i legami con le ex colonie, dagli Usa alle Indie e, soprattutto, intercettando talenti dalle classi dirigenti europea, americana e asiatica, in virtù della flessibilità del mercato del lavoro e della capacità di creare opportunità, Londra è diventata un centro globale dell’economia della conoscenza”. Una conoscenza che spazia dall’architettura alla finanza, dal giornalismo al teatro, dalla moda al cinema, fino alle prestigiose università che attirano studenti da tutto il mondo.
Una città dunque che accoglie tanti immigrati, e proprio “l’immigrazione”, sottolinea Niada, “è un termometro del successo di un paese, di una regione o di una città”, dal momento che “in un mondo sempre più globalizzato, se nessuno vuole andare a vivere in un luogo, la purezza etnica ne riflette semplicemente arretratezza economica, inacessibilità geo-politica o problemi sociali”. Ecco entrare in gioco allora il celebre teorema di Wimbledon, dal famoso torneo di tennis che, ogni anno, ospita i migliori giocatori su piazza per uno spettacolo sportivo che non manca mai di deludere gli appassionati. Come scrive Marco Niada, anche se “gli inglesi non vincono da decenni, ciò che conta è avere un buon campo, regole chiare che vengono fatte osservare, la capacità di richiamare i migliori professionisti da ogni parte del mondo e un circo mediatico-informativo in grado di proiettare l’evento ai quattro angoli del mondo”.
Volete un esempio più concreto? Pensate all’industria automobilistica britannica che, sebbene sia ora tutta in mano agli stranieri, produce la bellezza di 1,8 milioni sul proprio territorio, “quasi il doppio dell’Italia”, scrive Niada, “che ha gelosamente difeso l’industria nazionale fino a rischiare il fallimento della FIAT”. E se applicassimo il caso di Wimbledon anche al mondo universitario britannico, cosa scopriremmo? Un dato che, in quanto italiani, ci renderebbe più orgogliosi del nostro sistema accademico ma fino a un certo punto.
Secondo uno studio pubblicato nel gennaio 2007 e curato dall’addetto scientifico dell’ambasciata d’Italia a Londra, Salvator Roberto Amendolia, l’88% degli intervistati (su un campione di 150 accademici che lavorano oltre Manica) pensa “che il nostro paese dà una migliore preparazione universitaria rispetto alla Gran Bretagna”. Qual è il problema, allora? “Mettere a frutto tale educazione, insegnando e facendo ricerca”, è il vero problema made in Italy, dicono gli accademici italiani in Gran Bretagna, che al Bel Paese ci pensano spesso, ma la realtà prende poi il sopravvento e i loro sogni italiani ritornano nel cassetto. Sarà anche per questo che Londra è diventata la Capitale del XXI secolo?

mercoledì 1 ottobre 2008

Cool Hand Luke

Un altro grande, grandissimo attore se n'è andato. Adieu Paul Newman. Per noi della nuova generazione che non abbiam potuto godere (a suo tempo) delle indimenticabili performance di Paul, Marlon & C. non ci resta altro da fare che guardare, almeno per una volta, i loro capolavori. Così ho fatto anche io appena saputa la notizia della morte di Paul Newman. Mi sono guardato, per la prima volta appunto, il film Cool Hand Luke (Nick mano fredda nella versione italiana) con un Paul Newman splendido nell'interpretare un prigioniero poco ligio alle regole ferree del carcere dove viene rinchiuso. Ho scelto per ricordarlo (vedi sotto) la sequenza della magnifica canzone cantata da Newman quando viene a sapere della morte della madre. Ora che anche lui ci ha lasciato, questa indimenticabile sequenza assume un significato ancor più importante nella cinematografia del piccolo, grande spaccone dagli occhi blu. We'll miss you, Paul...

domenica 28 settembre 2008

Man of the Year

Volete vedervi un film di un'attualità imbarazzante? Sto parlando di Man of the Year diretto da Barry Levinson (vi dice qualcosa Rain Man e Sleepers?) e intepretato alla grande da Robin Williams nei panni di un comico televisivo che, dopo essersi candidato a sorpresa alle elezioni presidenziali americane, riesce - però solo grazie ad un errore del sistema elettronico di voto, e a sua insaputa e di tutto il popolo a stelle e strisce - a diventare niente di meno che il nuovo Presidente degli Stati Uniti d'America. Un comico al potere, insomma. Ci credereste mai? E il film di Levinson, uscito nelle sale nel 2006, ma sarebbe stato perfetto in questi giorni di agguerrita campagna elettorale tra Obama e McCain, rende il tutto abbastanza credibile, anche se la storia perde un po' di smalto quando vira verso il genere thriller-cospirazionista. Ma alla fin fine, per chi volesse farsi due risate intelligenti, e sperare magari che un giorno una persona come Tom Dobbs possa davvero candidarsi, il film è altamente consigliato. Frase d'antologia: "I politici sono molto simili ai pannolini, devono essere cambiati spesso e per lo stesso motivo".

Recount

Capita sempre più spesso di guardare alla televisione film (made in Usa) progettati unicamente per il piccolo schermo, ma che di certo non sfigurerebbero al buio di una sala cinematografica. Basti prendere ad esempio le innumerevoli serie tv americane - da Lost a I Soprano, da X-Files a Dr. House - che spesso sono meglio di un film per le tematiche che toccano, e soprattutto per il modo in cui lo fanno. Ho visto qualche giorno fa il film Recount, con Kevin Spacey nei panni del responsabile dello staff elettorale di Al Gore ai tempi delle contestate elezioni presidenziali del 2000 in Florida, che ci narra splendidamente quelle concitate settimane quando il popolo americano non sapeva chi considerare legittimamente nuovo commander in chief, se Bush jr. oppure il vicepresidente Al Gore. La storia ormai la conosciamo tutti, ma del dietro le quinte ne sapevamo poco o niente. Onore al merito, dunque, a questo emozionante - anche se un po' manicheo: democratici buoni, repubblicani cattivi - film per la tv, che ha saputo guardare sapientemente indietro alla storia recente degli Stati Uniti. Come vorremmo vedere anche sulla nostra tv pellicole del genere...

mercoledì 24 settembre 2008

Redacted

Non mi capita spesso di guardare un film recente e dire dopo la visione: "Questo è un autentico capolavoro". Può capitare una volta all'anno, massimo due. Ora mi è capitato un'altra volta, e peccato che questa pellicola non l'abbia vista al cinema, ma sarebbe stato (quasi) impossibile. Sto parlando di Redacted diretto da Brian De Palma, presentato l'anno scorso al Festival del Cinema di Venezia, e mai - dico mai - uscito nelle sale italiane. Una vergogna. Il film parla di un gruppetto di soldati americani di stanza in Iraq, coinvolti (e la storia è realmente accaduta) nello stupro di una bambina irachena di soli 15 anni, uccisa poi insieme alla madre, il nonno e la sorellina. La storia viene narrata attraverso i filmini che i soldati hanno girato per le strade di Samarra, alternati con un documentario diretto da alcuni giornalisti per spiegare la vita delle truppe e dei civili iracheni intorno a un check-point dell'esercito, con i video di attentati ai danni dei marines caricati sul web dagli stessi terroristi, e altro materiale - come i tg iracheni locali - sempre opera della finzione filmica di De Palma. Il punto di vista è dunque sempre diverso, ma l'angolazione dalla quale lo spettatore - attraverso i filmati prodotti dagli stessi soldati - entra pian piano nella storia è davvero privilegiata ed inedita. Un film che lancia, come nessun altro film recente è riuscito a fare, un'ombra di puro orrore sulla sciagurata avventura americana in terra irachena. "La vera storia della guerra in Iraq è stata redatta dai media commerciali di massa: se siamo disposti a provocare questi disordini, allora dobbiamo anche affrontare le orrende immagini che conseguono da questi atti", ha dichiarato Brian De Palma. Siamo pronti a quelle immagini?

Lisbon Story

Può il cinema far rivivere su pellicola e su schermo il segreto più profondo, e anche più inafferrabile, di una città? Dopo aver visto Lisbon Story di Wim Wenders siamo convinti proprio di sì. E non solo far rivivere l'essenza di un luogo, ma anche delle vite che uomini e donne trascorrono in quei luoghi. Questa perla cinematografica del regista tedesco è un film sul cinema, nella sua disperata ricerca di armonia tra le immagini e il sonoro su cui i due protagonisti stanno lavorando, ma allo stesso tempo è soprattutto un film sulla vita, con le domande, che immancabilmente ognuno di noi si pone, a fare da sfondo letterario alle meravigliose vedute di Lisbona. Possiamo dire, alla fin fine, che il cinema è capace di farci scoprire realtà intorno che non sempre riusciamo a scorgere? Lisbons Story ve lo saprà dire...

martedì 23 settembre 2008

I am Legend

Riuscirà mai l'uomo a debellare il cancro? Nel film I am Legend con Will Smith, il genere umano ci è finalmente riuscito. Ma a quale prezzo? Ce ne accorgiamo non appena realizziamo che il protagonista è costretto a vivere da solo, non si sa bene da quanti anni, in una New York spettrale e senza più vita per le strade, invase ormai solo da erbacce e feroci animali affamati. Non si tratta più di una giungla d'asfalto, ma di una vera e propria giungla. Nel tentativo di curare il cancro con un particolare virus opportunamente modificato, l'intero (o quasi) genere umano è stato infettato, causandone una lenta degenerazione animalesca. Compito del protagonista è quello di scoprire un eventuale antidoto in modo da salvare la razza umana, se ancora ne è rimasta traccia sulla faccia della Terra. Le premesse dunque sono perfette per un film che, almeno nella prima parte, davvero è ben fatto, con una buona dose di spettacolarità (vedi la prima sequenza della caccia con l'auto per le strade di New York) ma anche di riflessione su quello che la solitudine può significare per un uomo in quelle condizioni. Con l'incedere della storia, però, il tutto ci sembra un po' troppo prevedibile, senza quell'intensità iniziale che ci aveva non poco affascinato. La morale del film si riduce così a frasi ad effetto che appaiono un pizzico artificiose, se non proprio pretenziose. Un esempio? La passione del protagonista per la musica di Bob Marley, l'unica cosa che gli è rimasta - insieme al suo adorato cane e al ricordo della moglie e della figlia - del mondo che fu, viene riassunta in questa citazione del grande autore giamaicano: "The people that are trying to make this world worse are not taking a day off — how can I? — Light up the darkness" (Le persone che stanno cercando di rendere peggiore questo mondo non si prendono giorni liberi, come posso farlo io? Illumina l'oscurità). Will Smith come un redivivo Bob Marley? Chissà...

domenica 21 settembre 2008

Thirteen Days

Avrei voluto che durante gli anni scolastici i professori di storia mi avessero fatto vedere più film per meglio comprenderla, la storia. Non tanto per capire i perchè di tante guerre che, in ogni periodo storico, non sembrano mai mancare, ma in particolar modo per cercare di condividere quegli stati d'animo che i testimoni del tempo vissero sulla propria pelle. Un film non deve per forza propagandare una verità storica, questo spetta agli studiosi, ma può invece rappresentare attraverso dei personaggi e le loro storie intrecciate alla storia, quel sentire comune che aiuta noi spettatori, a distanza di decenni o secoli dall'evento narrato, a carpire l'importanza, appunto, storica di un momento del passato che, nel bene o nel male, ha influenzato anche le nostre vite. Ho rivisto Thirteen Days, sui fatidici tredici giorni che portarono, nel lontano ottobre 1962, gli Stati Uniti d'America di John (e Bobby) Kennedy vicinissimi alla terza guerra mondiale contro l'Unione Sovietica di Kruscev, e ho pensato a quanto sia facile fare una guerra, e quanto sia difficile evitarla quando tutto e tutti ti remano contro. Anche se il film non è perfetto - un po' troppo lungo (ben 145 minuti), con una tensione narrativa che a tratti va scemando, dopo una prima parte abbastanza incalzante, e con una visione storica non poco romanzata - l'occasione di rivedere su schermo l'azzardo diplomatico dei fratelli Kennedy è ghiotta. Disse una volta Bobby Kennedy ritornando indietro a quei tredici giorni: "La lezione finale che dobbiamo trarre dalla crisi cubana dei missili è la seguente: è indispensabile sapersi mettere nei panni dell'avversario". Chi ha ancora oggi il coraggio di farlo, e non solo in politica?


sabato 20 settembre 2008

The Human Beast (L'Angelo del Male)

Ci sono film che vengono ricordati soprattutto per sequenze memorabili, che una volta viste sullo schermo difficilmente potranno essere dimenticate. The Human Beast (L'Angelo del Male nella versione italiana) di Jean Renoir è uno di quei film. E la sequenza in questione è quella del treno in corsa, all'inizio e alla fine della storia, che per una pellicola del 1938 è una ripresa non da poco. Aggiungeteci il dramma d'altri tempi, con una donna e un uomo (un grande Jean Gabin) pazzamente innamorati e disposti a tutto pur di suggellare questo loro amore, anche ad uccidere, e il gioco è fatto. Da qui il richiamo al titolo La bestia umana, ispirato all'omonimo romanzo di Emile Zola, dove sono gli istinti più profondi e nascosti dell'essere umano ad essere illuminati e scandagliati sotto l'occhio vigile del regista francese. Splendido bianco e nero, a far risaltare a futura memoria i volti indimenticabili di Jacques & Severine.