domenica 24 gennaio 2010

Il Sudan al bivio del 2010

Dieci organizzazioni non governative, tra le quali Oxfam International e Save the children, hanno lanciato l’allarme: la Repubblica del Sudan, in particolare la sua regione meridionale, è di nuovo sull’orlo del collasso a cinque anni dalla firma dell’accordo di pace tra il Nord arabo e islamizzato e il Sud africano e cristiano-animista. Il trattato, firmato nel gennaio 2005, concluse uno dei più lunghi conflitti africani (scoppiato nel 1983) che fece circa 2 milioni di vittime e 4 milioni di profughi costretti ad abbandonare le proprie case.

Si aggrava la crisi umanitaria nel sud del Paese

A tre mesi dalle elezioni presidenziali che si terranno ad aprile, la paura è che le violenze interetniche e la crisi umanitaria nel sud del Paese continuino a mietere vittime. Nel 2009, ha ribadito Lise Grande, coordinatrice dell’Onu per le questioni umanitarie di stanza in Sudan, circa il 40% della popolazione della regione era a rischio. Gli scontri intertribali hanno provocato 2.500 morti, incluse donne e bambini, e 350mila sfollati.

«La nostra preoccupazione – dice Maya Mailer di Oxfam International – è che le violenze possano aumentare in occasione delle elezioni presidenziali e del referendum per l’autodeterminazione del sud Sudan del 2011». Questa consultazione potrebbe dare l’autonomia alla regione meridionale, ricca di risorse petrolifere di cui le potenze straniere, Cina in particolare, sono ghiotte.

Anche l’ambasciatore sudanese a Londra, Omar Muhammad Siddiq, ha confermato che nel sud del Paese la situazione si sta deteriorando, con diverse comunità armate l’una contro l’altra in una corsa ad accaparrarsi le risorse disponibili. Nel rapporto “Facing up to reality: health crisis deepens as violence escalates in southern Sudan”, Medici senza frontiere chiede alla comunità internazionale di intervenire nella regione con maggiori fondi per l’aggravarsi dell’emergenza umanitaria.

Scalettari: «Tante risorse naturali ma estrema povertà sociale»

«La situazione in sud Sudan è abbastanza critica», racconta l’inviato speciale in Africa di Famiglia Cristiana, Luciano Scalettari, sottolineando il dato diffuso a fine 2009 dalle organizzazioni non governative Oxfam International e Save the children. A preoccupare la comunità internazionale sono le crescenti violenze interetniche nella regione, che potrebbero vanificare l’accordo di pace siglato tra governo centrale e il sud del Paese nel gennaio 2005.

«C’è chi sostiene che, almeno in parte, queste violenze siano dovute anche a un lavoro sotterraneo da parte del nord Sudan», spiega Scalettari. «È un vecchio sistema già utilizzato», continua riferendosi alla decisione del presidente Hassan El Bashir di armare in passato gruppi di ribelli dove non c’era la volontà politica di intervenire. Non è un caso, allora, se l’ultimo di questi scontri è avvenuto in una zona ricca di petrolio. «C’è una ricchezza di risorse naturali in termini di petrolio ma un’estrema povertà sociale nel sud Sudan – evidenzia Scalettari – perché, dopo aver patito i 20 anni di guerra con il nord, la regione ne è uscita con sistemi sanitari, scolastici e infrastrutture del tutto azzerate».

Con un occhio alle elezioni presidenziali del prossimo aprile si comincia a parlare di pace a rischio. Secondo il giornalista, «è facile, di fronte ad un appuntamento che può cambiare in maniera radicale gli equilibri politici e di potere di un Paese, che si ricada di nuovo in guerra». Anche il referendum previsto per il 2011, che probabilmente vedrà una vittoria dei sì all’autodeterminazione del sud Sudan, potrebbe destabilizzare ulteriormente la regione, «mettendo in moto un meccanismo di divisione che in Africa è avvenuto solo in Etiopia ed Eritrea: solo che lì c’era un accordo comune, in Sudan invece no».

A giocare un ruolo non indifferente nella stabilità politico-sociale ci sono anche le pressioni esterne di Paesi occidentali e non (come la Cina) sulle risorse naturali sudanesi, alle quali si aggiungono «le tensioni recenti con il Ciad e con l’Eritrea, con l’LRA (Lord’s Resistance Army) ugandese, in passato appoggiato dal governo di Khartoum, per non parlare degli integralisti islamici che transitano fra Somalia e Sudan».

La politica cinese nel Paese è fin troppo chiara: fare affari senza interferire sulla politica interna, sul rispetto dei diritti umani e sulla corruzione del governo centrale. Ai cinesi interessano terreni e risorse petrolifere, mentre i sudanesi vogliono infrastrutture, strade e denaro. In questo modo, ci dice Scalettari, «si fanno accordi che convengono a entrambi: questo è l’atteggiamento cinese». Basti pensare, inoltre, che «molti Paesi africani, Sudan incluso, pensano che gli accordi stipulati con i cinesi siano anche migliori rispetto a quelli con i Paesi occidentali». Guardando all’Europa, invece, si denota uno scarso interesse che di certo non favorisce un’azione comune da parte dei 27 membri dell’Ue: per esempio «Sul Sudan la Francia ha una sua politica – evidenzia Scalettari – la Gran Bretagna ne ha un’altra, gli Stati Uniti un’altra ancora, mentre l’Italia non ne ha nessuna».

Intanto in Darfur c’è stato un lieve miglioramento rispetto all’anno scorso, quando il Tribunale penale internazionale dell’Aja incriminò Hassan El Bashir per crimini di guerra e contro l’umanità. All’epoca, prima volta per un presidente in carica, fu anche emesso un mandato internazionale di arresto. Per ritorsione, il governo di Khartoum ordinò l’espulsione di decine di Ong che operavano nell’area, che poi rientrarono gradualmente. Ora le condizioni appaiono sempre più critiche per la carenza di aiuti.

Il Sudan era stato inserito nella lista degli “Stati canaglia” per aver ospitato Bin Laden all’inizio degli anni ’90, e per questo subì l’embargo da parte degli Stati Uniti. Si rischiò così che «l’esplodere della crisi del Darfur – continua l’inviato di Famiglia Cristiana - potesse far prevalere la posizione Usa, che chiedeva di riconoscere il genocidio in atto, permettendo l’intervento Onu senza l’autorizzazione del governo sudanese». Per questo, conclude Scalettari, «non credo che Khartoum abbia interesse a ritrovarsi di nuovo in una situazione simile, per esempio proteggendo realtà terroristiche, anche se il terrorismo riesce sempre ad agire in condizioni ostili da parte delle autorità».