sabato 30 ottobre 2010

lunedì 25 ottobre 2010

Il mio Romanzo Tricolore

Luca e Cristina sono due italiani trasferitisi ormai da qualche anno nella Grande Mela per lavoro. Li ho incontrati proprio dall’altra parte dell’Oceano, abbiamo parlato delle nostre relative esperienze, ci siamo scambiati punti di vista differenti sulla nostra amata (e odiata) Italia e sull’America che mi avrebbe ospitato tra le sue braccia per i prossimi due mesi e mezzo. Dopo una serata trascorsa insieme, tornando a casa trovo una mail di Luca e Cristina per propormi una collaborazione con il loro sito iNewYork.it: fino al termine del mio stage newyorkese avrei dovuto scrivere alcuni articoli su personaggi italiani che hanno contribuito, nel bene e nel male, a fare la Storia di New York City. È nata così la mia rubrica Romanzo Tricolore, iniziata con il racconto della vita del piccolo fiore del Bronx, Fiorello la Guardia, sindaco indimenticato della Grande Mela tra il 1933 e il 1945. Grazie mille per l’opportunità che mi avete dato, Luca e Cristina, ve ne sarò per sempre grato (e voi sapete perché). Good luck and goodbye!

Fiorello La Guardia, il piccolo fiore del Bronx

Lo chiamavano tutti The Little Flower, riferendosi alla bassa statura (meno di un metro e cinquanta) e alla traduzione inglese del suo nome di battesimo, Fiorello. Nato a New York City l’11 dicembre 1882, al 177 Sullivan Street di Little Italy a Manhattan, Fiorello Henry La Guardia – figlio di un musicista cattolico di Foggia, Achille La Guardia, e di un’ebrea triestina, Irene Coen Luzzato – fu uno dei più apprezzati politici statunitensi, in particolare come sindaco di New York per tre mandati consecutivi dal 1933 al 1945. Nel 1898 la famiglia si trasferì nella casa materna a Trieste, nell’allora Impero Austro-Ungarico, dove La Guardia trovò il suo primo lavoro presso i consolati statunitensi di Budapest, Trieste e Fiume. Quando nel 1906 tornò a New York, La Guardia parlava correntemente l’ungherese, il tedesco, il serbo-croato, lo yiddish e l’italiano.
A New York lavorò come interprete per il servizio immigrazione a Ellis Island per pagarsi gli studi in giurisprudenza alla New York University. Nel 1916, a 34 anni, fu il primo italo-americano eletto al Congresso degli Stati Uniti nel collegio del Lower East Side a Manhattan. Si candidò per il partito repubblicano, ma solo per evitare di far parte dell’allora corrotto partito democratico. Fiorello La Guardia fu perlopiù un progressista, o meglio un liberale di sinistra, con un unico obiettivo: migliorare la vita dei propri concittadini. «Non voglio che si usi la parola politico – dichiarò La Guardia -, la sua connotazione è tale che io penso non debba essere usata, tranne per i politicanti, e di questi ce ne sono molti. Io non sono uno di questi». Sulla laurea honoris causa della Yale University, nella dedica c’era scritto che «aveva strappato la democrazia ai politici e l’aveva ridata al popolo».
Odiato da molti suoi colleghi repubblicani, spesso in contrasto con le sue idee riformatrici, La Guardia ampliò i servizi socio-sanitari, fece costruire parchi e incrementò i trasporti e l’istruzione pubblica. Quando divenne sindaco nel 1933, New York City non se la passava bene. «No more free lunch for anybody», disse La Guardia ai suoi concittadini, nella consapevolezza di dover ridurre la corruzione e la malavita in città. Per indebolire le organizzazioni criminali, decise all’inizio degli anni Trenta di rendere illegali i pinball (cioè i flipper): una corte del Bronx considerò quelle macchine al pari del gioco d’azzardo e in poche settimane il New York Police Department ne confiscò ben 3000. La Guardia donò poi i rottami di metallo al governo per dare una mano all’esercito nella guerra contro i nazisti. Quando i tedeschi lo etichettarono come il sindaco ebreo di New York, con un pizzico di ironia rispose: «Non avevo mai creduto di avere abbastanza sangue ebraico nelle vene da giustificare il fatto di potermene vantare».
Uomo dalla volontà di ferro, si concedeva solo un giorno alla settimana di riposo, la domenica, quando si dilettava a leggere alla radio le favole per i bambini della sua città. Alcuni lo considerarono un sindaco-dittatore, un decisionista sostenuto però da un forte sostegno popolare. Durante la sua ultima apparizione in pubblico Fiorello La Guardia disse: «La mia generazione ha fallito miseramente, abbiamo fallito per mancanza di lungimiranza. Ci vuole più coraggio per mantenere la pace che andare in guerra».
Il 1° giugno 1947 venne inaugurato il Fiorello La Guardia Airport, secondo aeroporto di New York dedicatogli per l’importanza avuta in città. Morì di cancro il 20 settembre 1947 nella sua casa al numero 5020 di Goodridge Avenue nel Bronx. Per chi volesse visitare la Big Apple ripercorrendo i passi del piccolo fiore del Bronx, basterebbe trovarsi in quello che La Guardia considerava come il suo Lucky Corner, all’angolo tra Lexington Avenue e la 116 Street, dove teneva l’ultimo comizio prima di ogni elezione. Da non perdere, poi, i LaGuardia Place Gardens nel Greenwich Village: qui, tra Washington Square Park e Houston Street, è possibile vedere la statua dedicata al sindaco italo-americano. Una piccola opera per ricordare, nel cuore di New York, un uomo che contribuì non poco all’impetuosa crescita della sua città.

The Rent Is Too Damn High Party

Resto qui perché...

Non scrivete

book generation pt3 from bookgeneration on Vimeo.

sabato 23 ottobre 2010

I promise that I always will be true

Apocalypse Now

Dreaming of Bob in New York City

Tra le cose che più mi mancheranno di New York City, al mio ritorno in Italia, ci sarà di sicuro la Webster Hall, una sala perfetta per ascoltare concerti di tutti i generi. Io ne ho ascoltati due, compreso quello di un chitarrista svedese (stile Bob Dylan) che si fa chiamare The Tallest Man on Earth.



L’esibizione è stata la migliore cui ho avuto il piacere di partecipare, e riguardando i video da me girati mi consolo un po’ del fatto che a metà novembre mi perderò Bob Dylan in concerto proprio a New York City.

Due mesi e mezzo nella Grande Mela, da fine luglio a metà ottobre, e uno dei miei cantanti preferiti doveva venire proprio un mese dopo la partenza per la mia cara Italietta. Peccato: see you soon next time, Mr Zimmerman.

giovedì 21 ottobre 2010

New Orleans to go

Prima di partire per l’America, destinazione New York City, sapevo già che durante i miei due mesi e mezzo di internship a Rai Corporation ne avrei approfittato per fare qualche viaggetto in giro per gli Stati Uniti. Di sicuro a Washington, tappa obbligata per me che non c’ero mai stato, ma fino all’ultimo sono rimasto indeciso sulle altre destinazioni. Due su tutte: New Orleans e San Francisco. Per un attimo ho pensato di andare da entrambe le parti, poi un po’ per mancanza di tempo avendo solo i weekend a disposizione per viaggiare, un po’ per risparmiare visti i prezzi dei biglietti aerei, ho optato per New Orleans. Da grande amante della musica non potevo farmi sfuggire l’occasione di andare a vedere di persona la vita delle stradine del French Quarter dove si esibiscono musicisti a volte davvero eccezionali. E come diceva Boris Vian: “Solo due cose contano: l’amore, in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New Orleans o di Duke Ellington”.





Decido di partire venerdì 17 settembre dall’aeroporto La Guardia nel Queens. Ho letto da qualche parte che la vista più bella di New York, oltre a quella dal ferry che collega Staten Island a Manhattan, si può avere proprio in partenza da questo aeroporto. Devo ammettere che è vero, e l’emozione nell’ammirare il Bronx dall’alto e poi pian piano il resto dell’isola di Manhattan ti lascia senza fiato. Da New York a New Orleans, in Louisiana, ci vogliono tre ore di volo, e lì il fuso orario segna un’ora indietro rispetto alla Grande Mela.

Poco prima di atterrare all’aeroporto Louis Armstrong riesco a vedere dal finestrino le paludi caratteristiche di questi luoghi per gran parte sotto il livello del mare, e il pensiero va subito alla distruzione che l’uragano Katrina causò nell’agosto 2005 soprattutto a New Orleans. Ricordo le immagini drammatiche che all’epoca vidi in televisione, con cadaveri riversi per strada, case completamente distrutte, gente costretta a rifugiarsi sui tetti delle loro abitazioni spazzate dalla furia dell’inondazione, barche al posto delle macchine laddove prima c’era asfalto e allora soltanto acqua alta.

Giunto a New Orleans, sono consapevole di trovarmi in una città che dietro la maschera ridente dei numerosi turisti riversi ogni sera per le sue strade, nasconde l’ombra di tante persone senza un lavoro e in uno stato di povertà estremo, in particolare dopo il disastro di Katrina.

Sistematomi in un ostello a Midtown, a due passi dalla fermata della street-car di Canal Street che porta direttamente in centro, mi immergo subito tra le stradine del French Quarter. Dopo un primo giro veloce e qualche acquisto di gadget e magliette varie, mi fermo in un negozio di musica dove quasi per caso mi trovo davanti al disco di Grandpa Elliott, armonicista e cantante di colore, reso famoso dal progetto Playing for Change che l’ha immortalato più e più volte durante le sue imperdibili esibizioni all’angolo tra Royal Street e Toulouse Street nel quartiere francese.


Prima di partire da New York, avevo già in mente di mettermi eventualmente sulle tracce di Grandpa. L’acquisto del suo album mi spinge a chiedere al proprietario dove poter trovare di preciso quel piccolo ometto barbuto che canta solo per la passione di farlo, con un cuore ed un’anima così grandi da commuovere chiunque si trovi ad ascoltarlo dal vivo. Così quello stesso venerdì pomeriggio decido di iniziare la caccia ad uno dei miei cantanti preferiti: Elliott Small, in arte Grandpa Elliott. La sera è ormai calata a New Orleans, e mi dirigo proprio verso l’angolo indicatomi dal negoziante. In lontananza intravedo un uomo su una sedia, barba lunga e bianca, maglietta rossa e salopette di jeans, e allora capisco immediatamente che il mio sogno sta per avverarsi. È proprio lui in carne ed ossa, Grandpa Elliott si sta esibendo in quel preciso istante nel quartiere francese di New Orleans, e io mi trovo al posto e al momento giusto.

Comincio a scattare una foto dopo l’altra, faccio anche delle riprese mentre Grandpa canta e suona Over the rainbow e Stand by me. Rimango in contemplazione insieme ad altri turisti seduti per terra o in piedi lungo Royal Street, che per qualche ora sembra avere occhi (e orecchie) solo per il piccolo, grande Elliott. Al termine della street-session mi faccio coraggio, mi avvicino a Grandpa e gli chiedo di farci una foto insieme, anzi due. Il mio sogno è diventato realtà!

Il primo giorno a New Orleans si conclude alla grande, pronto per il secondo durante il quale decido di fare un tour in barca per le paludi della Louisiana. Partenza nel primo pomeriggio, convinto di aver fatto bene a scegliere questo day-tour e non quello per i luoghi maggiormente colpiti dall’uragano Katrina, che si sarebbe svolto solo in autobus. Giunti a destinazione, saliamo (in tutto siamo una ventina) sull’imbarcazione che ci porta into the (Louisiana) wild. Intorno regna un silenzio irreale, un silenzio al quale non siamo abituati presi dalle nostre vite cittadine sempre più lontane dalla natura selvaggia e incontaminata. Avvistiamo anche qualche coccodrillo, ma il vero spettacolo è girare in barca lungo intricati sentieri d’acqua, circondati da alberi maestosi che ci avvolgono quasi in un abbraccio materno.



Il mio viaggio in Louisiana si conclude così, in mezzo a paesaggi mozzafiato, con un caldo quasi soffocante, circondato da quell’acqua che un giorno, se l’uomo non saprà preservare riserve naturali come queste, inghiottirà tutto e tutti senza pietà.

mercoledì 13 ottobre 2010

Allora invento, sogno, divago

È morto Angelo Infanti, attore italiano, indimenticabile nel ruolo di Manuel Fantoni nel film Borotalco di Carlo Verdone. Voglio rendergli omaggio postando un estratto di quella pellicola che mi ha sempre ossessionato per le parole pronunciate da Manuel quando Verdone nei panni del credulone Sergio Benvenuti gli chiede: "Ma perché dici tutte 'ste fregnacce?". “Perché mi annoio – risponde Manuel Fantoni – e allora invento, sogno, divago”. “Ma forse qualcosa di vero c’è”, ammette poi Manuel, cogliendo così una grande verità della vita: spesso ci si nasconde dietro delle maschere di cera per meglio confondersi e confondere chi ci sta intorno, ma ancora più spesso quelle stesse maschere rivelano una parte ineludibile di noi stessi. Perché, a volte, siamo fatti della stessa materia di cui sono fatte le nostre maschere.

Ecce Homo

Van Gogh from Philip Scott Johnson on Vimeo.

martedì 12 ottobre 2010

Il mio 11 settembre

Ricordo ancora quel pomeriggio di nove anni fa, 11 settembre 2001, io ancora un ragazzino – da qualche mese 16enne – pronto a godermi gli ultimi fuochi di una estate trascorsa a giocare a pallone, mattina e sera, nel mio adorato Parco del Sole a Salerno. Era un pomeriggio come tanti passato subito dopo pranzo a guardare un po’ di televisione e a sonnecchiare, quando a un certo punto vedo mio fratello correre in salone per darci la notizia. Ci ritroviamo in un attimo – io, mio padre e mia zia – davanti ad una apocalisse via etere, di fronte alle terribili immagini dell’attacco terroristico al cuore economico degli Stati Uniti, il World Trade Center con le sue altissime Twin Towers. Marco, mio fratello, vede con i suoi occhi, e in diretta, l’impatto del secondo aereo in una delle torri: solo in quel momento capisce che non si tratta di un film di fantascienza. E' tutto vero. Dopo quasi un’ora ipnotizzati davanti alla Tv, gli occhi fissi su quei due cerini di acciaio feriti a morte, assistiamo al crollo di circa 3000 vite innocenti nel vuoto di un cratere che avremmo tutti chiamato Ground Zero. Da quel giorno, anno dopo anno, è cresciuto in me il desiderio di andare di persona a New York, per varcare la soglia di un nuovo mondo, gli Stati d’Uniti d’America, capace di forgiare gran parte dei miei sogni e delle mie speranze. Nessuno avrebbe potuto pronosticare che proprio l’11 settembre di nove anni dopo, mi sarei trovato a New York per lavoro (come stagista a Rai Corporation) a coprire l’anniversario (tra l’altro il più turbolento di tutti) di quel tragico e storico giorno. Così lo scorso 11 settembre 2010 arrivo al mattino presto alla Rai per dare una mano durante le dirette dal terrazzo con vista sulla parte meridionale di Manhattan, dove prima svettavano imponenti le torri. La commemorazione si svolge questa volta con un occhio alle manifestazioni organizzate dagli attivisti contrari alla costruzione di un Islamic Center a pochi isolati da Ground Zero. Insieme al cameraman restiamo in strada per documentare le manifestazioni a favore e contro questo controverso progetto architettonico. C’è chi invoca il dovere di rispettare le migliaia di vite innocenti uccise dalla furia di fantomatici credenti islamici, chi invece grida a voce alta il suo benvenuto in terra americana a chiunque professi una religione diversa, Islam compreso, perché in fin dei conti – questa è la mia impressione - Bin Laden & Co. non possono considerarsi dei veri musulmani. Tornando a casa pronto per partire in serata per il New Jersey, ripenso a questa giornata lunga e faticosa e mi sento ripagato in pieno per aver potuto parteciparvi. Appena arrivo a casa di Gerardo, mio cugino di 3° grado, già dall’auto intravedo in lontananza un doppio fascio di luci. Capisco di cosa si tratta, e il mio pensiero va subito a quelle fantastiche torri che per una notte all’anno sembrano rivivere ancora, sebbene solo per poche ore, lassù nel cielo scuro del New Jersey e del mondo intero. Così tramonta anche il mio (primo) 11 settembre a stelle e strisce, insieme a quelle luci che presto sfumeranno lasciando posto, poco a poco, ad una nuova alba.

Welcome back, Bob

Rest in Peace, King Solomon

martedì 5 ottobre 2010

Because the Night

Gli Stati Uniti hanno sempre rappresentato una delle fonti principali del mio amore per l’arte, musica e cinema in primis. A proposito di sette note, un mesetto fa ho assistito al primo, vero concerto americano, proprio così come me lo immaginavo dall’Italia. Sono andato al B.B. King Blues Club per ascoltare il mitico Nils Lofgren, chitarrista della E Street Band del Boss Bruce Springsteen (mio cantante preferito insieme a Bob Dylan). Il locale è ideale per ascoltare con la giusta dose di intimità un concerto dall’inconfondibile sound rock-blues. Sono riuscito anche a fare delle riprese decenti, buone testimoni del talento artistico del piccolo grande Nils Lofgren. Ho sperato fino alla fine che il Boss raggiungesse l’amico Nils sul palco, ma niente da fare: alla fine si è presentato Charlie Giordano, nuovo componente della E Street Band dopo la morte del tastierista Danny Federici, ma almeno hanno suonato una canzone del Boss, Because the Night. See you next time, Bruce...