Prima di partire per l’America, destinazione New York City, sapevo già che durante i miei due mesi e mezzo di internship a Rai Corporation ne avrei approfittato per fare qualche viaggetto in giro per gli Stati Uniti. Di sicuro a Washington, tappa obbligata per me che non c’ero mai stato, ma fino all’ultimo sono rimasto indeciso sulle altre destinazioni. Due su tutte: New Orleans e San Francisco. Per un attimo ho pensato di andare da entrambe le parti, poi un po’ per mancanza di tempo avendo solo i weekend a disposizione per viaggiare, un po’ per risparmiare visti i prezzi dei biglietti aerei, ho optato per New Orleans. Da grande amante della musica non potevo farmi sfuggire l’occasione di andare a vedere di persona la vita delle stradine del French Quarter dove si esibiscono musicisti a volte davvero eccezionali. E come diceva Boris Vian: “Solo due cose contano: l’amore, in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New Orleans o di Duke Ellington”.
Decido di partire venerdì 17 settembre dall’aeroporto La Guardia nel Queens. Ho letto da qualche parte che la vista più bella di New York, oltre a quella dal ferry che collega Staten Island a Manhattan, si può avere proprio in partenza da questo aeroporto. Devo ammettere che è vero, e l’emozione nell’ammirare il Bronx dall’alto e poi pian piano il resto dell’isola di Manhattan ti lascia senza fiato. Da New York a New Orleans, in Louisiana, ci vogliono tre ore di volo, e lì il fuso orario segna un’ora indietro rispetto alla Grande Mela.
Poco prima di atterrare all’aeroporto Louis Armstrong riesco a vedere dal finestrino le paludi caratteristiche di questi luoghi per gran parte sotto il livello del mare, e il pensiero va subito alla distruzione che l’uragano Katrina causò nell’agosto 2005 soprattutto a New Orleans. Ricordo le immagini drammatiche che all’epoca vidi in televisione, con cadaveri riversi per strada, case completamente distrutte, gente costretta a rifugiarsi sui tetti delle loro abitazioni spazzate dalla furia dell’inondazione, barche al posto delle macchine laddove prima c’era asfalto e allora soltanto acqua alta.
Giunto a New Orleans, sono consapevole di trovarmi in una città che dietro la maschera ridente dei numerosi turisti riversi ogni sera per le sue strade, nasconde l’ombra di tante persone senza un lavoro e in uno stato di povertà estremo, in particolare dopo il disastro di Katrina.
Sistematomi in un ostello a Midtown, a due passi dalla fermata della street-car di Canal Street che porta direttamente in centro, mi immergo subito tra le stradine del French Quarter. Dopo un primo giro veloce e qualche acquisto di gadget e magliette varie, mi fermo in un negozio di musica dove quasi per caso mi trovo davanti al disco di Grandpa Elliott, armonicista e cantante di colore, reso famoso dal progetto Playing for Change che l’ha immortalato più e più volte durante le sue imperdibili esibizioni all’angolo tra Royal Street e Toulouse Street nel quartiere francese.
Decido di partire venerdì 17 settembre dall’aeroporto La Guardia nel Queens. Ho letto da qualche parte che la vista più bella di New York, oltre a quella dal ferry che collega Staten Island a Manhattan, si può avere proprio in partenza da questo aeroporto. Devo ammettere che è vero, e l’emozione nell’ammirare il Bronx dall’alto e poi pian piano il resto dell’isola di Manhattan ti lascia senza fiato. Da New York a New Orleans, in Louisiana, ci vogliono tre ore di volo, e lì il fuso orario segna un’ora indietro rispetto alla Grande Mela.
Poco prima di atterrare all’aeroporto Louis Armstrong riesco a vedere dal finestrino le paludi caratteristiche di questi luoghi per gran parte sotto il livello del mare, e il pensiero va subito alla distruzione che l’uragano Katrina causò nell’agosto 2005 soprattutto a New Orleans. Ricordo le immagini drammatiche che all’epoca vidi in televisione, con cadaveri riversi per strada, case completamente distrutte, gente costretta a rifugiarsi sui tetti delle loro abitazioni spazzate dalla furia dell’inondazione, barche al posto delle macchine laddove prima c’era asfalto e allora soltanto acqua alta.
Giunto a New Orleans, sono consapevole di trovarmi in una città che dietro la maschera ridente dei numerosi turisti riversi ogni sera per le sue strade, nasconde l’ombra di tante persone senza un lavoro e in uno stato di povertà estremo, in particolare dopo il disastro di Katrina.
Sistematomi in un ostello a Midtown, a due passi dalla fermata della street-car di Canal Street che porta direttamente in centro, mi immergo subito tra le stradine del French Quarter. Dopo un primo giro veloce e qualche acquisto di gadget e magliette varie, mi fermo in un negozio di musica dove quasi per caso mi trovo davanti al disco di Grandpa Elliott, armonicista e cantante di colore, reso famoso dal progetto Playing for Change che l’ha immortalato più e più volte durante le sue imperdibili esibizioni all’angolo tra Royal Street e Toulouse Street nel quartiere francese.
Prima di partire da New York, avevo già in mente di mettermi eventualmente sulle tracce di Grandpa. L’acquisto del suo album mi spinge a chiedere al proprietario dove poter trovare di preciso quel piccolo ometto barbuto che canta solo per la passione di farlo, con un cuore ed un’anima così grandi da commuovere chiunque si trovi ad ascoltarlo dal vivo. Così quello stesso venerdì pomeriggio decido di iniziare la caccia ad uno dei miei cantanti preferiti: Elliott Small, in arte Grandpa Elliott. La sera è ormai calata a New Orleans, e mi dirigo proprio verso l’angolo indicatomi dal negoziante. In lontananza intravedo un uomo su una sedia, barba lunga e bianca, maglietta rossa e salopette di jeans, e allora capisco immediatamente che il mio sogno sta per avverarsi. È proprio lui in carne ed ossa, Grandpa Elliott si sta esibendo in quel preciso istante nel quartiere francese di New Orleans, e io mi trovo al posto e al momento giusto.
Comincio a scattare una foto dopo l’altra, faccio anche delle riprese mentre Grandpa canta e suona Over the rainbow e Stand by me. Rimango in contemplazione insieme ad altri turisti seduti per terra o in piedi lungo Royal Street, che per qualche ora sembra avere occhi (e orecchie) solo per il piccolo, grande Elliott. Al termine della street-session mi faccio coraggio, mi avvicino a Grandpa e gli chiedo di farci una foto insieme, anzi due. Il mio sogno è diventato realtà!
Il primo giorno a New Orleans si conclude alla grande, pronto per il secondo durante il quale decido di fare un tour in barca per le paludi della Louisiana. Partenza nel primo pomeriggio, convinto di aver fatto bene a scegliere questo day-tour e non quello per i luoghi maggiormente colpiti dall’uragano Katrina, che si sarebbe svolto solo in autobus. Giunti a destinazione, saliamo (in tutto siamo una ventina) sull’imbarcazione che ci porta into the (Louisiana) wild. Intorno regna un silenzio irreale, un silenzio al quale non siamo abituati presi dalle nostre vite cittadine sempre più lontane dalla natura selvaggia e incontaminata. Avvistiamo anche qualche coccodrillo, ma il vero spettacolo è girare in barca lungo intricati sentieri d’acqua, circondati da alberi maestosi che ci avvolgono quasi in un abbraccio materno.
Il mio viaggio in Louisiana si conclude così, in mezzo a paesaggi mozzafiato, con un caldo quasi soffocante, circondato da quell’acqua che un giorno, se l’uomo non saprà preservare riserve naturali come queste, inghiottirà tutto e tutti senza pietà.
2 commenti:
Bello bello bello! ;-)
Grazie grazie grazie :-)
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