mercoledì 28 luglio 2010

Forever Young (in New York City)

Spesso in ostello si conoscono persone che non avremmo mai avuto l’occasione di incontrare. Ragazzi e ragazze da tutto il mondo con i quali scambiarsi impressioni sulle proprie vite, sui propri sogni, sui propri viaggi. Il viaggio diventa così un luogo dell’anima grazie al quale poter fare incontri che non si dimenticheranno facilmente. A me è capitato proprio qui a New York, durante i primi giorni trascorsi al Westside Pearl nell’Upper West Side. A volte basta uno sguardo per intendersi, un sorriso, un fugace scambio di parole per fare amicizia. Basta un messaggio sul cellulare per contattarsi, magari per uscire e vedersi ancora una volta. Possono passare anche dei giorni prima di rincontrarsi, poi tutto sembra filare liscio e le proprie strade come per magia si incrociano di nuovo. Una partita di baseball – Metz contro Cardinals allo Shea Stadium – diventa così una ottima occasione per far sì che queste strade si ricongiungano, anche solo per poche ore di una qualunque sera d’estate americana. Tra una risata e un silenzio, una foto e una chiacchiera, la magia a tratti svanisce per sbiadire inesorabilmente in un saluto che ha il sapore dolceamaro della giovinezza. Un sapore che non verrà dimenticato a cuor leggero.

Vita da stagista

Ora i nostri ruoli a Rai Corporation sono chiari: per noi dell’ufficio produzione l’assegnazione ai singoli corrispondenti e telegiornali è stata fatta. Io lavorerò insieme ai producers del Tg3 e alla giornalista Giovanna Botteri. Sono molto contento e desideroso di imparare più cose che posso nei prossimi due mesi e mezzo newyorkesi. Uno dei vecchi stagisti, Lorenzo, ci ha spiegato con santa pazienza come servirsi del computer per ricercare le immagini per un pezzo, ci ha mostrato le varie fasi del lavoro che ci vedrà protagonisti, ci ha parlato della sua esperienza dandoci una grossa mano ad ambientarci durante questi primi giorni. Di stagisti ne vanno e ne vengono di continuo, a Rai Corporation, noi siamo appena arrivati ma a metà ottobre toccherà farci da parte e spiegare ai nuovi interns le regole del mestiere. Così è la vita, una ruota che gira alla quale conviene sempre aggrapparsi senza mai mollare la presa. Tanto, prima o poi, le soddisfazioni verranno a galla. Basta solo avere passione e un bagaglio infinito di buona volontà: that’s it!

martedì 27 luglio 2010

Il primo giorno di scuola

Tutto come una volta, proprio quando da bambino mi accingevo ogni anno, dopo un’estate sfrenata passata a giocare a pallone dalla mattina alla sera, a ritornare tra i banchi di scuola con un leggero mal di pancia. Come è successo oggi, leggermente emozionato per l’inizio di questo mio sogno a stelle e strisce targato Rai Corporation. Quasi faccio tardi già il primo giorno per colpa della linea 3 della subway che non vuole saperne di partire dalla fermata 148th di Harlem. Alla fine riesco ad arrivare giusto in tempo, pronto per salire al 25esimo piano del palazzo della at&t insieme alle mie compagne di stage (Giulia, Paola, Patrizia, Laura, Clea e Teodora: eh lo so, proprio beato tra le donne!). Giunti a destinazione ci imbattiamo subito nella scritta Rai Corporation, ad avvertirci che stiamo entrando in una sorta di Little Italy televisiva nel cuore di Manhattan. Ad accoglierci è Donatella, che ci porta in una stanza per spiegarci cosa faremo durante questa prima giornata di orientamento. Uno dopo l’altro ci vengono a parlare i responsabili delle varie sezioni per darci ognuno la propria panoramica sul lavoro che in gruppi separati – tra ufficio corrispondenza, client and services e Rai Italia – ci troveremo a svolgere. Le idee pian piano cominciano a schiarirsi, però manca ancora qualcosa per realizzare di essere stati selezionati davvero come stagisti a Rai Corporation. Ce ne rendiamo conto non appena saliamo sul terrazzo dove i giornalisti fanno gli stand-up e dove i vecchi interns si mettono in posa per immortalare uno dei momenti più entusiasmanti della loro vita: aver fatto parte di un sogno chiamato New York. Osservare in lontananza il ponte di Manhattan e di Brooklyn, l’Empire State Building e il Chrysler Building, lanciare uno sguardo sul fiume Hudson e immaginare - ora come nove anni fa - l’atmosfera di terrore che si respirava mentre le due Torri gemelle implodevano su se stesse, ti toglie il respiro e ti fa pensare: alla fine ce l’ho fatta, il sogno è diventato realtà, adesso non resta altro da fare che rimboccarsi le maniche e mettercela tutta. Tanto è solo l'inizio.

domenica 25 luglio 2010

Almost like a New Yorker


Da qualche giorno mi sto chiedendo cosa davvero voglia dire sentirsi un New Yorker a tutti gli effetti. Forse lo inizierò a capire una volta che mi trasferirò nell’appartamento che ho trovato sulla 149th street ad Harlem. Avere un punto d’appoggio stabile, non come l’ostello Westside Pearl che mi ha ospitato nell’Upper West Side per quattro notti, mi aiuterà di certo a conquistare quella autonomia che finora non ho avuto. Da lunedì, poi, quando finalmente inizierà lo stage a Rai Corporation (e non vedo l’ora), non potrò che immergermi a pieno ritmo in una città che di ritmo non ne perde mai, nemmeno la sera quando la gente ritorna a casa da una giornata di lavoro, magari pronta a farsi trascinare dalle tante manifestazioni open air che NYC sa offrire in estate. Di sicuro non me le lascerò sfuggire – tra concerti, rassegne cinematografiche e gite fuori porta – pronto a vivere giorno dopo giorno come un vero New Yorker, nostalgico quanto basta della sua Italia ma felice di essersene allontanato per un po’, forse per amarla meglio e di più. Come cantava Warren Zevon in Keep me in your heart: “If I leave you it doesn’t mean I love you any less”. See you dear Italy, but not yet, not yet.

sabato 24 luglio 2010

Cosa vuoi di più dalla vita?


L’ansia da pre-partenza era dovuta soprattutto alla ricerca di una stanza che avrei dovuto iniziare non appena giunto a destinazione. Durante gli ultimi giorni, dopo aver visto decine e decine di annunci su Craiglist, decido di guardare qualche offerta anche sul sito di NyHabitat, un’agenzia di New York specializzata negli affitti di appartamenti in condivisione. Da subito entro in contatto con Beatrice, che inizia a propormi qualche stanza via mail. Giunto sul posto, do un’altra occhiata alle stanze disponibili già da fine luglio e così mi faccio segnare un appuntamento nel suo ufficio: qui discutiamo delle offerte realmente disponibili, e dopo una mezz’oretta mi congedo con tre opzioni nel cassetto. Due stanze ad Harlem - una più vicina a Central Park, l’altra meno - e un’ultima stanza nell’Upper East Side. Qualche ora dopo Beatrice mi contatta per darmi i numeri di telefono di Michael e Steven, i proprietari di due delle tre stanze da me scelte. Vado prima da Michael ad Harlem, che mi propone una stanza in affitto a $775 (spese incluse) in un appartamento in condivisione con lui, il suo cane (si chiama Blue, come il colore) e una ragazza italiana, di Milano, che resterà fino a metà settembre. Questa prima soluzione non mi dispiace, anche se la stanza e tutto il resto me l’aspettavo un pochino più grandi. Confermo a Michael di essere molto interessato, però prima di decidere gli dico che ho bisogno di vedere un’altra stanza la sera stessa, quella nell’Upper East Side. Chiamo Steven per chiedergli quando, e se, possiamo vederci in serata. Mi dice di andare da lui alle nove. Io mi avvio alle otto, dopo aver fatto un giro per Wall Street fino al molo dello Staten Island Ferry. Arrivato a Lexington Avenue, pronto a prendere la linea verde, mi squilla il telefono: è Steven. Mi dice che purtroppo la sua stanza è stata appena affittata da una persona che non ha perso tempo ed ha subito pagato il deposito. Come spesso mi è capitato in passato, prendo una decisione all’istante: chiamo subito Michael, e gli dico che ho deciso di prendere la stanza. Rimaniamo che il mattino seguente gli avrei portato i $700 del deposito per bloccare la stanza. Così faccio, e il giorno dopo gli porto i soldi della caparra. Intanto, in attesa di tornare da Beatrice per saldare i conti della commissione, me ne vado in giro per una New York un tantino piovosa. Opto per Downtown e il richiamo del World Trade Center è ancora forte dopo la fugace visita notturna dello scorso aprile insieme a Stefano e Giuseppe. Per la prima volta vedo di giorno cosa resta del cratere di quell’indimenticato 9/11/2001, con la Freedom Tower (la torre della libertà) che pian piano sta nascendo dalle macerie delle Torri gemelle. Decido di allungarmi più a sud, nello splendido Battery Park, rovinato solo da una incessante pioggia che mi costringe ad aprire l’ombrello. La stanchezza si fa presto sentire, e così mi siedo su una panchina dello skyline newyorchese, davanti a me in lontananza la sagoma possente della Statua della Libertà, dove mi rilasso leggendo I segreti di New York di Corrado Augias e ascoltando un po’ di buona musica sul mio nuovo BlackBerry. Come a dire: cosa vuoi di più dalla vita?

La valigia sospetta

Partenza con circa un’ora di ritardo da Roma Fiumicino, che quasi stavo perdendo la coincidenza con il volo da Londra Heatrow per Newark nel New Jersey. All’aeroporto di Roma insieme ai miei genitori incontriamo un caro amico di famiglia, Andrea, nato a Brooklyn, quindi abbastanza esperto di cose americane. Gli chiedo qualche consiglio su New York, essendoci lui nato, quasi invidiandolo per questa sua dote di nascita. L’ansia comincia a salire, nella consapevolezza che fra qualche ora dovrò salutare i miei genitori che non vedrò per quasi tre mesi di seguito. Dopo qualche lacrima d’ordinanza, mi faccio coraggio e mi dirigo al controllo bagaglio. Tanto per sdrammatizzare e farci qualche risata, ho quasi perso il contro - tra Roma, Londra e Newark – di quante volte mi hanno fatto aprire le valigie per controllare che non imbarcassi niente di pericoloso. A Londra addirittura mi hanno sottoposto a un controllo extra, dove l’agente si è divertito ad aprire e scombussolare l’ordine precario dei miei bagagli. Per non parlare poi delle scarpe che mi hanno fatto levare, proprio per non farmi mancare nulla. Giunto all’aeroporto di Newark, dopo un volo di oltre sette ore, mi accingo a superare indenne il controllo della dogana. Che dire? 1) Sono uno studente in vacanza per tre mesi in terra americana, che non ha alcuna intenzione di lavorare senza visto e che non conosce nessuno qui a New York; 2) confessare che son venuto fin qui per uno stage (non retribuito) presso la televisione di stato italiana. Alla fine opto per la prima soluzione, che a tratti però mi fa temere di venire respinto. Per ben tre volte, tre diversi agenti mi tartassano di domande – quanto tempo resterai?, come mai tutto questo tempo, perlopiù da solo?, come ti finanzierai?, che lavoro fanno i tuoi genitori?, hai del cibo e delle piante in valigia? – per capire bene le ragioni di un giovane 25enne che ha deciso di trascorrere una solitaria estate americana. Alla fine mi lasciano andare, e con mio grande sollievo esclamo tra me e me: “Here we are”. Ci siamo: diamo inizio alle danze (americane). Tanto che ne sanno, lì alla dogana, dell'estate (forse) più bella della mia vita che mi accingerò a vivere niente di meno che a New York City.

Il cielo quasi fra le mani


Quando un sogno diventa realtà, il passo successivo sembra spingerci verso un sogno ancora più grande. Il mio sogno è diventato realtà, lo sto vivendo mentre scrivo queste parole in un ostello dall’altra parte dell’oceano Atlantico. Il mio sogno ha un nome e cognome: New York. Ebbene sì, alla fine ce l’ho fatta, lo scorso giugno ho ricevuto la grande notizia, via mail, della mia selezione come stagista - dal 26 luglio al 15 ottobre - alla Rai Corporation di New York City. Ho deciso di partire il 21 luglio dall’Italia, con un volo British Airways da Roma Fiumicino, per sfruttare questi primi giorni in cerca di una stanza da affittare fino a metà ottobre, quando questa mia avventura newyorchese sarà terminata. Adesso che deve ancora cominciare non so bene cosa aspettarmi, anche se amici mi hanno più o meno spiegato cosa mi ritroverò a fare presso l’ufficio di corrispondenza cui sono stato assegnato: ora aspetto solo di sapere a quale corrispondente verrò affiancato. Vivere New York così da vicino sarà tutt’altra cosa rispetto alla mia ultima visita della scorsa Pasqua insieme a Nicola, Stefano e Giuseppe. Questa volta potrò toccare con mano cosa vuol dire fare giornalismo in una metropoli così entusiasmante, così caotica, così difficile come NYC. Ricordo quando qualche mese fa, trovandomi a passeggiare lungo i viali di Central Park, dicevo a Stefano quanto mi sarebbe piaciuto vivere per qualche mese in questa città, magari come stagista, per poter finalmente realizzare il sogno di una vita: andare all’estero per studiare o lavorare. Con l’Erasmus in terra danese sfumato nel nulla qualche anno fa, penso di essermi preso la giusta rivincita contro un destino che in quell’occasione mi voltò inspiegabilmente le spalle. Ora spetta a me non perdere le innumerevoli occasioni (di formazione, di svago e di vita) che mi si presenteranno a tonnellate durante i prossimi tre mesi a stelle e strisce. Stefano, Nicola e Joe Triglia mi hanno avvertito: niente sarà come prima dopo questa traversata oltreoceano. Basterà solo non dare le spalle alla vita, in attesa del prossimo grande sogno da realizzare ad occhi aperti. Proprio come sto facendo hic et nunc a New York City.

lunedì 19 luglio 2010

Democrazia fai-da-te

Certi libri servono a riannodare i fili di un discorso persosi nei meandri del chiacchiericcio di sottofondo. Quel chiacchiericcio che troppo spesso dilaga ogni giorno sui telegiornali più seguiti dagli italiani e sui quotidiani sempre più vuoti di notizie. Ad personam di Marco Travaglio, edito da Chiarelettere, è uno di quei libri, e il discorso che cerca di affrontare in quasi 600 pagine di fatti riguarda il processo di privatizzazione della democrazia ad opera della destra e sinistra italiane.

Il giornalista del Fatto quotidiano scrive che «la privatizzazione della giustizia, malattia senile e incurabile del conflitto di interessi, è il frutto avvelenato dell’incrocio delle peggiori culture impunitarie, estranee ai valori costituzionali e ai principi dello Stato liberale di diritto, che dominano la politica e l’intelligencija italiote». Travaglio ci dimostra, ripercorrendo gli anni dal 1994 al 2010, che non c’è alcuna differenza tra gli schieramenti politici e il loro approccio verso il governo della cosa pubblica: «La sola differenza fra le legislature del centrosinistra (1996-2001 e 2006-2008) e quelle del centrodestra (1994, 2001-2006, 2008-2010) è che nelle prime le leggi vengono approvate perlopiù ad personas, cioè nell’interesse di una moltitudine di imputati eccellenti, mentre nelle seconde sono ad personam, riservate in esclusiva al presidente del Consiglio e ai suoi cari coimputati».

Ma qual è stata la prima legge ad personam della storia italiana? Risale a più di un quarto di secolo fa, scrive Travaglio, precisamente al 16 ottobre 1984 quando i pretori di Torino, Pescara e Roma sequestrarono gli impianti della Fininvest di Silvio Berlusconi alla luce di una sentenza della Corte costituzionale sulla liberalizzazione delle tv private. In pratica alle emittenti commerciali fu vietato di trasmettere programmi in contemporanea su scala nazionale, regola non rispettata dall’azienda dell'attuale premier. In soccorso di Berlusconi arrivò l'omonimo decreto firmato dall’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi per riaccendere le tv oscurate della Fininvest.

Era il 1984, oggi siamo nel 2010 e di leggi ad hoc ne sono passate non poche: leggi ad personam, contra personam (come quella per impedire, per una mera questione anagrafica, a Gian Carlo Caselli di diventare procuratore nazionale antimafia), ad mafiam, ad aziendam, ad castam, contra Iustitiam e ad personas. Insomma sembra proprio esserci l’imbarazzo della scelta, e l’enciclopedico libro di Travaglio ci aiuta a districarci tra gli obbrobri legislativi degli ultimi anni della (nostra) storia italiana. Per non dimenticare.

martedì 13 luglio 2010

Libertà di stampa, di Mark Twain

di Mark Twain
L'omicidio è proibito sia formalmente che di fatto, la libertà di parola è garantita nella forma, ma è proibita di fatto. Per l'opinione comune sono crimini entrambi, tenuti in grande spregio da tutti i popoli civili. L'omicidio è a volte punito, la libertà di parola lo è sempre - quando viene esercitata. Il che è raro.

Di regola la nostra autostima ha la sua fonte in un unico posto - uno solo - e in nessun altro luogo: nell'approvazione degli altri.

Non facciamo altro che sentire, e l'abbiamo confuso col pensare. E da tutto ciò non si ottiene che un aggregato che consideriamo una benedizione. Il suo nome è Opinione Pubblica.

La fattoria degli animali, di George Orwell

di George Orwell
L'uomo è la sola creatura che consuma senza produrre. Egli non dà latte, non fa uova, è troppo debole per tirare l'aratro, non può correre abbastanza velocemente per prendere conigli. E tuttavia è il signore di tutti gli animali.

TUTTI GLI ANIMALI SONO UGUALI MA ALCUNI ANIMALI SONO PIU' EGUALI DEGLI ALTRI.

L'ultima notizia, di M. Gaggi e M. Bardazzi

di Massimo Gaggi e Marco Bardazzi
Non vengono più chiamati semplicemente "giornalisti", ma MoJo, un acronimo che sta per mobile journalist. Da loro ci si aspettano non solo articoli, ma foto e video - montati sul telefonino grazie a un semplice software - che possono venir pubblicati direttamente sul sito web dal cronista che è in strada.

di Max Frisch
La tecnologia è l'abilità di organizzare il mondo in modo tale che non dobbiamo farne esperienza.

The Post-American World, by F. Zakaria

di Fareed Zakaria
When people in Asia or Africa criticize the West, they are often using arguments that were developed in London, Paris, or New York. Osama Bin Laden's critique of America in a September 2007 video tape - which included references to Noam Chomsky, inequality, the mortgage crisis, and global warming - could have been penned by a left-wing academic at Berkeley.

China needs the American market to sell its goods; the United States needs China to finance its debt - it's globalization's equivalent of the nuclear age's Mutual Assured Destruction.

While the American system is too lax on rigor and memorization - whether in math or poetry - it is much better at developing the critical faculties of the mind, which is what you need to succeed in life. Other educational systems teach you to take tests; the American system teaches you to think.

Ti racconto un film, di R. Escobar e E. Cozzi

di Federico Fellini
Il mestiere di regista è un modo di fare concorrenza al padreterno. Nessun altro mestiere consente di creare un mondo che assomiglia così da vicino a quello che conosci, ma anche ad altri sconosciuti, paralleli, concentrici.

di Alfred Hitchcock
Nel documentario è Dio il regista, quello che ha creato il materiale di base. Nel film di finzione è il regista che è un dio, deve creare la vita.

di Pier Paolo Pasolini
La morte compie un fulgido montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci. Il montaggio opera dunque sul materiale del film quello che la morte opera sulla vita.

La solitudine del maratoneta, di Alan Sillitoe

di Alan Sillitoe
Solo gli stupidi leggono libri, perché hanno tanto da imparare.

E se qualcuno di voi vuol sapere come si corre, si ricordi di non avere mai fretta, e di non lasciare mai che nessuno degli altri corridori capisca che si ha fretta anche se è vero. (...) Perché, vedete, io non gareggio mai; io corro soltanto, e in qualche modo so che se dimentico la gara e mi limito a tenere un buon passo finché non so più che sto correndo, vinco sempre.

Erano anni che mangiava da solo, ma non era ancora abituato alla solitudine. Non riusciva a farci il callo, vi si era adattato solo provvisoriamente nella speranza che un giorno il suo incantesimo si sarebbe rotto.

Sono nato spacciato. Me lo ripeto in continuazione. Tutti sono spacciati, rispondo. E' vero, ribadisco, ma quasi nessuno se ne accorge come sto cominciando a fare io, ed è un peccato che io l'abbia finalmente compreso quando non ci potevo fare più niente, e quando era troppo tardi, perdio, per cavarne qualcosa di buono.

Lezioni americane, di Italo Calvino

di Italo Calvino
Certo la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com'è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull'immobilità delle parole mute.

Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un'intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d'insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura - dico la letteratura che risponde a queste esigenze - è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere.

Magari fosse possibile un'opera concepita al di fuori del self, un'opera che ci permettesse d'uscire dalla prospettiva limitata d'un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l'uccello che si posa sulla grondaia, l'abero in primavera e l'albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica...