venerdì 24 settembre 2010

Il dolce suono mi colpì di sua voce

"Ho superato il limite della caduta, ho la sensazione di andare oltre il limite dello spazio, di guardare oltre il limite del tempo"
(
Patrick De Gayardon)

mercoledì 22 settembre 2010

Neil Young sings about Love and War


L'America che mi piace

Qualcuno mi aveva detto: “L’America non è New York”. Anche per questo sto cercando, durante questo mio stage newyorkese, di uscire - quando posso - dai confini di Manhattan. Lo scorso 6 settembre, Labor Day qui negli Stati Uniti (una sorta di ferragosto americano), decido di fare una gita di un solo giorno a Washington DC. Parto all’1:15 di notte dal Madison Square Garden e arrivo quando è ancora scuro nella capitale, intorno alle 6:30. Il viaggio non è così poi tanto lungo, e la stanchezza ancora non si fa sentire nonostante non dorma come si deve da almeno 12 ore. In autobus cerco di appisolarmi, ma l’impresa non è delle più semplici. Sceso dal bus comincio a cercare disperatamente un diner dove fare una nutriente colazione americana a base di pancake e uova strapazzate. Giro un po’ a vuoto senza trovarne nemmeno uno, poi chiedo a un poliziotto che subito mi dà le giuste indicazioni per raggiungere il Lincoln Diner.
Mi siedo al bancone pronto ad ordinare la mia colazione da campione, e come già previsto scelgo i soliti pancake (cui mi sono davvero affezionato, dopo averli provati la prima volta da Gerardo nel New Jersey) con aggiunta di uova. Il cameriere è molto gentile, si assicura che tutto sia perfetto e non appena arriva la mia colazione mi ci butto a capofitto senza pensare ad altro. Cerco di cospargere al meglio lo sciroppo sui miei tre pancake, in modo che non restino troppo a secco. Appena finisco, posso ritenermi soddisfatto e soprattutto sazio. Decido di lasciare un paio di dollari di mancia al cameriere, che molto contento prende da sotto il bancone una mappa di Washington per indicarmi tutti i posti da vedere in un solo giorno. Che bel regalo, penso all’istante, ed è la prima volta qui in America che la mia mancia è stata ben spesa. Saluto il cameriere e mi incammino per iniziare una giornata da turista a passeggio per la capitale degli States. A ripensarci ora, mi sembra ancora di sentire la stanchezza sulle gambe e sui piedi. Per il bagaglio di ricordi che mi son portato di ritorno a New York non c’è fatica che tenga, però.
E' impagabile arrivare all’alba e camminare lungo il National Mall, vedere sorgere il sole pian piano dietro il Campidoglio, scattare qualche foto alla Casa Bianca di Barack Obama, alzare lo sguardo in cielo per ammirare in tutta la sua imponenza il George Washington Monument ed emozionarsi nel vedere in lontananza la gradinata del Lincoln Memorial che tanti pezzi di Storia ha visto passare sotto i suoi occhi (dal discorso I have a dream di Martin Luther King alla celebrazione per la vittoria di Obama, primo presidente nero della storia americana). Cammino per più di 12 ore con l’obiettivo di vedere tutto quello che posso. La parte più faticosa è raggiungere (sempre a piedi, per potermi godere la vista dall’Arlington Bridge del Potomac River) il cimitero militare di Arlington. Tappa obbligata per me che voglio andare a rendere omaggio ai due fratelli John e Robert Kennedy.


L’emozione è fortissima appena giungo sulla tomba di JFK e alla vista dell’Eternal Flame, omaggio perfetto ad un presidente che continua ad essere pianto ancora oggi: posso giurarvi di aver sentito una ragazza piangere lacrime vere dinanzi a questo fantastico memoriale. Poco distante da JFK, sulla sinistra, rendo omaggio a Robert Kennedy, anche lui caduto sul campo di una battaglia politica che forse l’avrebbe portato alla presidenza: indimenticabile il lungo viaggio del treno che trasportò la salma del povero Robert, e le migliaia di persone ferme, lì vicino ai binari, a porgere il loro ultimo, commosso saluto. Questa è l'America che mi piace.



Non mi sono fatto mancare quasi nulla durante questa indimenticabile gita fuori porta a Washington DC, neanche una conclusiva e veloce visita al National Museum of American History, dove c’era una interessante esposizione dedicata al mitico Abramo Lincoln, che continua a lanciare uno sguardo severo e paterno dall’alto dell’imponente memoriale che svetta sul lungo sentiero della democrazia americana. May God bless all of you, dear Americans!

lunedì 20 settembre 2010

L'estate sta finendo

Quest’anno ho vissuto una estate completamente diversa dalle solite estati italiane, trascorse in parte sulle spiagge del salernitano a rilassarmi tra un bagno e un’abbronzatura al sole. A New York ci si viene per altro, certamente non per andare al mare. Insieme a Christian, un amico italiano conosciuto qui in America, decidiamo però un giorno di fare un giro a Coney Island, chiamata Konijn Eiland (l’isola dei conigli) dai primi colonizzatori olandesi. La giornata è caldissima, siamo ancora in pieno agosto, e una marea di persone si sta godendo il sole sulla spiaggia, anche se l’acqua non è particolarmente invitante. Tra l’altro non ho nemmeno il costume ma l’afa è così opprimente che decidiamo di tuffarci in un mare che non ha tutti i connotati per chiamarsi tale. Mi levo la maglietta e mi butto direttamente con i pantaloncini. L’acqua dell’Oceano Atlantico non è così fredda come credevo, ma almeno mi rinfresco un poco. Questa mia gita fuori porta al mare mi fa pensare per un attimo all’estate italiana che ho perso insieme a tutti i miei amici stando qui a New York. È bastato poco, però, per rendermi conto di quanto sia stato invece fortunato a vivere questa inaspettata e veloce estate americana. La nostalgia degli amici lasciati in Italia è stata tanta come anche il desiderio di poter vivere le loro pazze serate in spiaggia ad aspettare il tramonto.
Ogni volta che visito un posto nuovo sono sempre alla ricerca di un personale luogo dell’anima che mi aiuti, anche solo per un istante, a farmi sentire più rilassato e in pace con me stesso, distante quanto basta da non farmi pensare alle mie ambizioni e relative frustrazioni. Non ne ho trovato ancora nessuno definitivo qui a New York, ma c’è un posto che potrebbe diventarlo al termine di questa esperienza italo-americana. Si chiama Far Rockaway, nel quartiere newyorkese del Queens, a due passi dall’aeroporto Jfk, e ci si arriva con la linea A della metropolitana: è la spiaggia pubblica più grande di tutta New York. Decido di andarci una domenica particolarmente soleggiata per fare due foto. A un certo punto la metro esce allo scoperto e si può ammirare lo spettacolo del mare talmente vicino ai vagoni da dare l’impressione di viaggiare miracolosamente sull’acqua. La spiaggia di Far Rockaway è molto frequentata da surfisti alla ricerca dell’onda giusta.
Al solito io mi godo la passeggiata d’obbligo lungo il boardwalk (ah, quanto mi piacciono questi boardwalk americani) con le cuffie nelle orecchie ad ascoltare un po’ di buona musica e ad ammirare lo spettacolo delle onde che lambiscono una spiaggia in stile California, quasi infinita e dalla sabbia finissima. A un certo punto decido di sedermi su una panchina a riposarmi un pochino, e lì ci rimango per due ore buone nel tentativo di scorgere qualcosa (magari l’Italia) oltre l’orizzonte infinito di quel mare maestoso quanto basta per sognare ad occhi aperti. Un sogno chiamato libertà, difficile da spiegare a parole ma facilissimo da sentire non appena arriva ad accarezzare le corde del nostro animo sognante e prigioniero.

martedì 14 settembre 2010

I love New York City!!!

Capita di vedere un film open air nel cuore pulsante di Central Park, dove centinaia di new yorker (o aspiranti tali, come me) si riuniscono per guardare tutti insieme una pietra miliare della cinematografia a stelle e strisce, a firma Woody Allen, capace di catturare su pellicola l’anima di una città dai mille volti e dalle innumerevoli maschere. Bastano pochi secondi, con la Rapsodia in blu di George Gershwin a fare da sfondo musicale alle prime indimenticabili sequenze di Manhattan, per far scattare un applauso generale, come se tutti gli spettatori - avidi di vedere per l’ennesima volta una pellicola consumata nel corso degli anni – fossero sintonizzati sulla stessa frequenza, pronti a gustarsi l’esplosione su schermo di luci (notturne) e di colori (diurni) tipici di New York City. E la trama, raccontandoci le vicende di un adulto che non vuol proprio crescere, innamorato (per modo di dire) di una ragazzina sin troppo matura, sembra ricalcare le orme di una metropoli dura e romantica come poche altre sanno essere al tempo stesso. I love NYC!

Vita da stagista #4

Durante questo mio stage a Rai Corporation sto avendo modo di capire cosa voglia dire fare del buon giornalismo (e viceversa). Io ho avuto la fortuna di lavorare per il Tg3 insieme al corrispondente Oliviero Bergamini, un vero giornalista, curioso e pronto a coprire storie capaci di spiegare un pezzetto, ma pur sempre significativo, di realtà newyorkese e americana. Dopo il servizio su 5POINTZ e sui 99ers, siamo andati insieme al producer David nel New Jersey ad intervistare un sergente dell’esercito che ha perso entrambe le gambe in Iraq. L’intervista non era facile da condurre vista la profonda ritrosia del veterano ad esprimersi politicamente sui conflitti in Iraq ed Afghanistan. “Non ho nessun rammarico”, ci ha detto il sergente riferendosi alle sue tre missioni in terra irachena, confidandoci di averlo fatto per il bene della sua Patria. Non ha cambiato idea nemmeno dopo aver perso le gambe, forse anche per giustificare questo suo amaro destino. La cosa che più mi ha colpito appena arrivati a Union Beach, nel New Jersey, è stata la grande bandiera a stelle e strisce che sventolava forte sulla sua casa. “Focus on what you have, not on what you do not have”, ci ha detto il veterano, intendendo che ormai non ha più senso pensare alle gambe perdute per sempre in battaglia. Meglio sarebbe concentrarsi su ciò che si ha ancora, come ad esempio la famiglia, una moglie e dei figli insieme ai quali crescere e superare i momenti di sconforto. Nel concludere la lunga intervista, mentre il sergente ci stava mostrando ciò che ogni mattina deve fare per salire e scendere dall'auto, mi è venuto in mente di fargli un’ultima domanda su quella splendida bandiera sventolante sopra le nostre teste. “When you see that flag over your house, what do you think? How do you feel? What does it mean for you?”. Per un attimo il veterano si è commosso, come se tutta la sua sicurezza fosse svanita nel rispondere a una domanda che aveva sfiorato i ricordi più tristi (sugli amici persi lungo la strada) e le convinzioni più forti (su una Patria con una storia da onorare anche a costo di perdere una parte di se stessi in guerra).

mercoledì 1 settembre 2010

Cooler in the commercials






Rendiamo grazie al (Dio) Gospel


Mio padre me l’aveva detto: “Vai a vedere i cori gospel ad Harlem”. E così ho fatto, anche se in ritardo dal mio arrivo, a fine luglio, nel quartiere afro di Manhattan. Decidiamo di andare qualche domenica fa all’altezza della 116th Street, peccato per il tempo che ci riserva un bel po’ di pioggia. Solitamente la messa inizia tra le 10:30 e le 11am, e se non ti avvii in anticipo rischi di trovare la solita fila dei turisti desiderosi di vivere la stessa, entusiasmante emozione religiosa a suon di musica gospel. Noi arriviamo abbastanza tardi, e pur provando ad entrare in diverse chiese non c’è verso di trovare ancora posti liberi. Per fortuna l’amico di Giulia, Stefano, chiede all’ingresso della Memorial Baptist Church se c’è qualche altra messa nel pomeriggio. Ce ne sarà una alle 3pm, e così dopo aver consumato un ottimo brunch nel West Village ritorniamo ad Harlem per immergerci finalmente nel ritmo di una celebrazione gospel. Per certi versi siamo anche fortunati a non aver trovato posto la mattina, perché più tardi partecipiamo ad un evento meno turistico non trattandosi di una messa domenicale vera e propria. Appena entrati in chiesa, ci sediamo su alcune sedie poste lateralmente quasi avessimo paura di disturbare un rito cui non ci sentiamo ancora parte integrante. Ad affascinarmi di più è la batteria alla mia destra, che mi fa immaginare la preghiera in musica che ascolteremo. Ci dicono che sentiremo solo qualche canzone, e invece più e più volte i musicisti all’organo e alla batteria si esibiscono per accompagnare la preghiera dei fedeli. Per qualche minuto riesco anche a fare delle riprese con la fotocamera, sebbene non sia permesso. È un continuo alzarsi e sedersi nel tentativo di emulare al meglio il comportamento delle persone che ci circondano: cantare, battere le mani a suon di musica e rendere grazie a Dio a passo di danza. Sul finire, dopo più di due ore di passione religiosa, ci alziamo tutti in piedi e ci diamo i mignoli (sì, avete capito bene, i mignoli e non le mani) per dedicare l’ultima preghiera gospel al Signore, il meno noioso e più rock che abbia mai conosciuto. Thanks God!