venerdì 28 novembre 2008

Bombs and bullets cannot destroy India

Sparare addosso agli indiani musulmani sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Troppo semplice e sbrigativo pur di non fermarsi a pensare ad una spiegazione plausibile e ragionata dei tragici eventi letteralmente esplosi in quel di Mumbai, in India. E come ha scritto dalle colonne del Guardian Shashi Tharoor, "le bombe e le pallottole non possono distruggere l'India, ma ciò che può distruggerla è un cambiamento nello spirito della sua gente, volto al pluralismo e alla coesistenza che restano il nostro punto di forza". Vero, verissimo, quant'è vero che "se questi tragici eventi porteranno alla demonizzazione dei musulmani dell'India", conclude Tharoor, allora sì che "i terroristi avranno vinto". Che la democrazia indiana si apra ancor di più al mondo, e non viceversa, è la nostra speranza affinchè l'ideologia distruttiva dei terroristi possa essere prima o poi sconfitta.

di Shashi Tharoor (The Guardian)

In its meticulous planning and military precision, the assault on Mumbai bore no trace of what its promoters tried to suggest it was - a spontaneous eruption by angry young Indian Muslims. This horror was not homegrown. (…) Bombs and bullets alone cannot destroy it. (…) But what can destroy India is a change in the spirit of its people, away from the pluralism and coexistence that has been our greatest strength. (…) If these tragic events lead to the demonisation of the Muslims of India, the terrorists will have won. For India to be India, its gateway - to the multiple Indias within, and the heaving seas without - must always remain open.

lunedì 24 novembre 2008

A Case for Change

Al The Economist non è sfuggito il bel film italiano diretto da Paolo Virzì, "Tutta la vita davanti". Non a caso ne ha fatto cenno in un articolo pubblicato in merito alle proteste studentesche contro la riforma dell'università del ministro Gelmini, sottolineando (giustamente) il fatto che l'età di pensionamento per i professori è di ben 72 anni, mentre la Gelmini ne ha proposto l'abbassamento (solo) a 70 anni. Un piccolo passo, dice l'Economist, verso un insieme di altre riforme da apportare "a uno dei settori più corrotti in Italia". Avete capito bene, "most corrupt".
“TUTTA LA VITA DAVANTI” (“Your Whole Life Ahead”), a recent Italian movie, opens with the voice of a young woman defending her thesis. The camera dwells on one wrinkled visage after another, until it becomes clear that the entire examining board is made up of octogenarians—and a chuckle of cynical recognition runs through the cinema audience. The retirement age for Italian university teachers is 72. Mariastella Gelmini, education minister in Silvio Berlusconi’s right-wing government, plans to reduce it, though only to 70. And this is just one of a host of reforms she is seeking to make to one of the worst managed, worst performing and most corrupt sectors in Italy.

domenica 23 novembre 2008

Obama and the Myth of the Black Messiah

Se davvero sono le persone a creare le condizioni per la presenza di un (nuovo) leader sul palcoscenico della politica, allora per l’Italia – impossibilitata ad averne uno altrettanto nuovo come Barack Obama negli Stati Uniti – non c’è altro da incolpare che il popolo italiano stesso. Se non cambieremo noi tutti, e il nostro modo di partecipare alla formazione di un’autentica opinione pubblica, non cambieranno neanche i nostri pseudo-rappresentanti in Parlamento. Amara verità con cui dovremo, prima o poi, fare i conti.

by Ta-Nehisi Coates (Time)
The truth is that the people create the conditions for the leader, not the other way around. Obama isn't bringing moral values to the black community; he's responding to the community's own innate, quasi-conservative embrace of those values. Thus the question of what Obama has to teach black people is exactly backward. The real question is what black people, through Barack Obama, have to show America and the world.

Waiting for "The Wrestler"

Un grande Mickey Rourke ritornato alla ribalta delle scene cinematografiche con questa sua straordinaria interpretazione, e un altrettanto intenso Bruce Springsteen che ha firmato la colonna sonora dell'atteso film The Wrestler. Guardate (e ascoltate) il trailer...

sabato 22 novembre 2008

IL FILM - Changeling

di Paolo Massa
Clint Eastwood è un vero maestro della Settima Arte. E con questo suo ultimo film, “Changeling”, lo dimostra ancora una volta pur non ripetendo il miracolo che gli riuscì con altre due splendide pellicole, “Mystic River” e “Million Dollar Baby”. Non convince a pieno, infatti, l’eccessiva spinta melodrammatica del finale, a tratti un po’ troppo dilatato nel tempo e ridondante. Ma la semplicità disarmante con la quale il regista americano riesce ogni volta ad essere classico e moderno al tempo stesso non manca mai di stupirci.
In questa sua ultima fatica dietro la macchina da presa è sempre la regia a mostrarci l’armonia classica grazie alla quale Eastwood sa trasmetterci il senso profondo di un’epoca (in questo caso l’America degli anni 20, poco prima della Grande Depressione), di un luogo, di un personaggio e quindi di una storia, che non si ferma mai ad una semplice ricostruzione dei fatti, immancabilmente tesa a riflettere anche sul nostro presente.
La storia (vera) che vede come protagonista una splendida Angelina Jolie (nei panni di Christine Collins) è ambientata in una apparentemente tranquilla Los Angeles del 1928, dove madre e figlio vivono la loro vita. Ben presto, però, un evento inatteso – la scomparsa del piccolo Walter Collins – farà piombare la povera madre in una disperazione senza appello, accentuata dalla condotta a dir poco scorretta del dipartimento di polizia di Los Angeles che pretenderà a tutti i costi di affidare alla signora Collins un bambino ritrovato spacciandolo deliberatamente per suo figlio.
La donna, confusa per lo shock di aver forse riavuto indietro l’amato Walter, crede alla versione della polizia pur essendo convinta (almeno all’inizio) che quel bambino non sia il suo bambino. Ma ormai sono trascorsi diversi mesi dalla scomparsa, e il ragazzino può anche aver subito qualche cambiamento. Dopo qualche giorno però la madre non ha più dubbi, quello di sicuro non è il suo Walter, e nel vano tentativo di dimostrarlo agli agenti di polizia finisce per essere presa per pazza e sbattuta illegalmente in un manicomio. Fortunatamente entra in gioco il pastore della comunità (un superbo John Malkovich) che approfitta della vicenda di Christine Collins per aiutarla ma anche per saldare i conti, una volta per tutte, con il corrotto e violento Los Angeles Police Department, denunciandone le malefatte dai microfoni della sua radio.
La pellicola ci mostra così, sequenza dopo sequenza, la discesa agli inferi di una donna che in nome di un sacrosanto diritto – pretendere che le indagini del figlio continuino – non perde mai quella speranza cui lo spettatore invece sembra non credere più. Ma la forza d’animo dell’eroina di Clint Eastwood (come per la pugile dell’insuperato “Million Dollar Baby”) diviene il simbolo tangibile di una resistenza che qualsiasi uomo (compresa una donna, e forse anche di più) può sbattere in faccia a quelle istituzioni (oggi come ieri) che non sempre lavorano al fianco del cittadino, cercando anzi di calpestarlo impunemente. E il volto segnato dal dolore e dalla speranza di un’agguerrita Angelina Jolie sta lì a dimostrarlo con tutta la sua forza dopo ben 80 anni dai fatti narrati.

IL FILM - La classe

di Paolo Massa
Non ci sono dubbi che il film “La classe” di Laurent Cantet, vincitore della Palma d’Oro al 61° Festival di Cannes, sia fondamentalmente un film politico. Non tanto perché mette in scena, insieme ai personaggi e alle loro storie, una precisa ideologia, ma proprio per non averlo fatto assume quella valenza politica capace di porre i responsabili francesi (ma non solo) delle politiche di immigrazione dinanzi alla mancata integrazione delle periferie (in questo caso) parigine. E quando tale scollamento sociale avviene dentro le mura di una scuola, e quindi tra ragazzi adolescenti, la denuncia di un film (o anche di un libro, essendo la pellicola basata sul romanzo omonimo dell’insegnante Francois Begaudeau) riveste un’importanza non più periferica, bensì nazionale se non proprio transnazionale.

I ragazzi-studenti-attori del film, infatti, pur parlando francese possono benissimo rappresentare la gioventù di tante altre nazioni alle prese, soprattutto negli ultimi anni di globalizzazione, con un’immigrazione che riempie le scuole del mondo di culture e tradizioni diverse e lontane al tempo stesso. Ci troviamo in un istituto della periferia parigina dove un professore di francese, interpretato dal vero professore Begaudeau (l’autore del libro), si cimenta con un gruppo di ragazzi che sembra davvero poco interessato ad apprendere i rudimenti della propria lingua. E qui sta il problema di fondo, sembra suggerirci il regista, quando si vede il professore chiedere ai suoi allievi di quale nazionalità si sentano e le risposte lasciano a dir poco esterrefatti.

In una classe composta in gran parte da ragazzi originari di altri paesi, nonostante siano nati in Francia, la maggior parte dichiara di sentirsi tutt’altro che francese, e di fronte all’impresa (impossibile?) di insegnar loro a parlare come si deve la lingua, il professore si scontra lezione dopo lezione contro un muro di diffidenza e indifferenza insormontabile. Ecco dunque scorgere la valenza profondamente simbolica del film, che già a partire dal sottotitolo (“Entre les murs”, dentro le mura) ci avverte della presenza metaforica di un ostacolo tanto invisibile quanto reale che non divide soltanto i luoghi dell’azione filmica (la classe, appunto) dal mondo esterno, ma sembra separare irrimediabilmente il professore dai suoi stessi alunni.
Un muro sociale difficile da buttare giù, e che come ogni muro impedisce quel dialogo tra culture indispensabile ad una società multiculturale tesa all’inclusione delle sue periferie. Quelle periferie, in fondo, che sono anche un po’ le nostre, o lo saranno molto presto. Un film coraggioso nel guardare con occhi diversi e sinceri alla realtà magmatica della scuola del XXI secolo.

IL FILM - Parigi

I film corali – alla Robert Altman, per intenderci – riescono (quasi) sempre a trasmetterci quelle sensazioni di vita freneticamente vissuta che altri film non riescono a fare così semplicemente. Ma ci vuole per l’appunto un Altman di turno per sentirsi davvero soddisfatti dopo la visione di un film del genere. Ecco perché il film Parigi, sulla falsariga delle pellicole che seguono contemporaneamente le storie di più personaggi che si incontrano (e scontrano) nel corso della narrazione, non coinvolge a pieno lo spettatore per l’incapacità di fondo di caratterizzare al meglio i vari personaggi della storia. Sembrano tutti un tantino finti e studiati a tavolino, privi di quella parvenza di realtà che ci permetterebbe di condividere a pieno le loro ansie, gioie, sofferenze e speranze. Perché guardare è condividere, nel bene e nel male.

venerdì 21 novembre 2008

La mia Gomorra

E' quasi trascorso un anno dalla mia laurea triennale - 24 novembre 2007 - e proprio in questi giorni mi appresto a scegliere la prossima tesi per la specialistica. In realtà lo so già. La mia Gomorra sarà, molto probabilmente, il pensiero fisso dei futuri mesi da laureando-bis. Il lavoro sarà duro, ma appassionante proprio come piace a me.

Grazie Mia, grazie Faber

Ecco cosa significa per me saper intepretare una canzone. Grazie Mia, grazie Faber...

giovedì 20 novembre 2008

Ho visto anche degli zingari felici

Luca Carboni insieme a Riccardo Sinigallia ha rispolverato questa bella canzone del grande cantautore Claudio Lolli. Sopra la versione originale. Sotto, invece, un'altra perla musicale di Lolli, la migliore canzone - a mio parere - dedicata al compianto Marco Pantani.

venerdì 14 novembre 2008

Il mio Festival

di Paolo Massa
Quasi dieci giorni di cinema. Oltre 20 film visti. Posso (quasi) dire di aver vissuto più al buio di una sala che alla luce. Come accreditato stampa per il sito web Whipart.it ho seguito il III Festival Internazionale del Film di Roma, che si è svolto all’Auditorium dal 22 al 31 ottobre 2008. E’ stata un’esperienza tanto elettrizzante quanto stancante, ma soprattutto è stata una vera e propria immersione nel mondo dei sogni della Settima Arte, quei sogni che paradossalmente più ci mostrano la realtà con occhi “fantastici” e più ce ne svelano il vero volto. Questo è il bello del (buon) cinema: darci la possibilità di vedere la realtà da punti di vista inediti e quindi capaci di coglierne il senso profondo. Nella vita vera la frenesia del quotidiano ci ingabbia nella sua inestricabile rete di impegni inderogabili; nella vita “cinematografica”, invece, le storie e i personaggi diventano il mezzo attraverso il quale il fluire - spesso senza senso – dei giorni assume una patina di certezza come se potessimo lanciare uno sguardo dall’alto sui pezzi di realtà rappresentati. Ma non sempre, però, il cinema ci dà quelle risposte alle domande che tanto ci intrigano in una storia, anzi gli interrogativi restano lì sullo schermo pronti a “tormentarci” anche fuori dalla sala. Accade così che il cinema e la realtà s’influenzino a vicenda, divenendo due facce della stessa meravigliosa medaglia.
P.S. qui sotto ci sono tutti gli articoli scritti per Whipart.it. Il mio film preferito? Due, in particolare: Man on Wire e When a man comes home.

mercoledì 5 novembre 2008

Il Sogno diventato Realtà


di Paolo Massa

Change has come to America”. Il cambiamento è arrivato in America, ha detto il nuovo (e primo) presidente afroamericano Barack Obama davanti alle migliaia di fan riunitisi al Grant Park di Chicago. Non l’ha detto solo a quelle persone però. Dicendolo si è rivolto concretamente anche agli altri cittadini degli Stati Uniti d’America, e simbolicamente a tutto il mondo globalizzato in trepidante attesa della sua elezione.

Alla fine Barack ce l’ha fatta, e insieme a lui ce l’hanno fatta tutti coloro che hanno creduto (a ragione) di scorgere nei suoi discorsi quel seme di cambiamento che si spera possa, nei prossimi quattro anni, far germogliare i frutti della speranza globale. Negli ultimi otto anni abbiamo vissuto esperienze dolorose e scioccanti, a partire dall’indelebile squarcio nei cieli di Manhattan quel maledetto 11 settembre 2001, quando noi tutti ci sentimmo americani.

Ben presto, però, quel senso di comunità ferita nel profondo sbiadì sotto le picconate ideologiche dell’amministrazione di George W. Bush, la quale si impelagò in un’assurda quanto inutile guerra in Iraq, distogliendo quelle forze che forse avrebbero permesso di catturare in Afghanistan lo sceicco del Terrore, Osama Bin Laden, reo confesso della strage al World Trade Center di New York.
Ora che Bush jr. & Co. hanno lasciato definitivamente la Casa Bianca - per la precisione questo avverrà il prossimo 20 gennaio quando Barack Obama giurerà come nuovo commander in chief - ci sarà da sperare in tutto quello in cui non si è potuto credere durante i tristi anni di governo repubblicano.
Change has come, dunque, e anche se per adesso questo cambiamento è ancora visibile solo in superficie, siamo lo stesso fiduciosi di scorgerlo, nel prossimo futuro, soprattutto nei fatti di una Storia che ieri, 4 novembre 2008, ha voltato finalmente pagina.

martedì 4 novembre 2008

What it means to be an American


Prima di sapere domani notte chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America, se Obama oppure McCain, e per concludere in bellezza questo finale di campagna elettorale made in Usa, credo che ascoltare Fareed Zakaria, a proposito di quello che ha detto Colin Powell nel suo endorsement a favore del senatore afroamericano, sia fondamentale per capire cosa significhi, o dovrebbe significare, ancora oggi essere americani. Fate attenzione alle parole di Colin Powell, and you'll understand what it means to be an American.

lunedì 3 novembre 2008

domenica 2 novembre 2008

Miracolo a Sant'Anna


di Paolo Massa

Con Miracolo a Sant’Anna, il nuovo (e primo) film di guerra di Spike Lee, il regista afroamericano che ha diretto in passato pellicole del calibro di La 25a ora e di When the leeves broke. A requiem in four acts - uno straziante omaggio agli sfortunati cittadini di New Orleans devastati dall’uragano Katrina - ritorna nelle sale con questa sua prima opera bellica ambientata principalmente nella Toscana del 1944 durante la Seconda guerra mondiale. La pellicola, a dire il vero, ha inizio nel 1984, quando vediamo un impiegato di colore delle poste di New York sparare senza esitazione ad un cliente che sta per spedire delle lettere.

Immancabili le polemiche qui in Italia subito dopo l’uscita del film, a causa della non particolarmente rosea rappresentazione che se ne dà della resistenza partigiana, ma l’autore mette subito in chiaro le cose spiegando con una didascalia introduttiva che il corpus della storia è basato unicamente sui fatti narrati da James McBride nel suo omonimo romanzo. Non si mette in dubbio, dunque, la verità storica della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, dove senza alcuna ragione le SS trucidarono il 12 agosto 1944 ben 560 persone, comprese donne e bambini, mentre nel film si ipotizza invece che l’eccidio fu frutto di una rappresaglia alle scorribande dei partigiani contro i soldati tedeschi.

La macchina da presa segue quattro soldati neri appartenenti alla 92° divisione Buffalo Soldiers dell’esercito statunitense, che dopo un violento conflitto a fuoco contro i crucchi riescono a fuggire, insieme a un bambino (Angelo) trovato ferito nei boschi intorno, rimanendo poi bloccati in un piccolo paese al di là delle linee nemiche. Da subito si comprende il punto di vista dal quale Spike Lee intende narrare la storia e la sua verità sui tanti, troppi soldati di colore mandati a morire durante la Seconda guerra mondiale. E soprattutto per questa scelta la pellicola ci appare un tantino di parte – neri buoni, bianchi cattivi – finendo per compiere lo stesso errore di cui era stato accusato Clint Eastwood, dallo stesso Spike Lee, per aver girato senza attori di colore il film bellico Flags of our fathers. Come dire: la guerra è (e dovrebbe) essere uguale per tutti, sia in vita che in punto di morte.

Una volta giunti nel paesino sperduto tra il fiume Serchio e le montagne, i quattro soldati cominciano a familiarizzare, non senza qualche difficoltà, con gli abitanti del posto, tra i quali si distingue la bella Valentina Cervi (che interpreta, un po’ sopra le righe, una ragazza troppo disinibita per i tempi che correvano all’epoca), e il sempre ottimo Pierfrancesco Favino nella parte di un partigiano alle prese con i rimorsi della propria coscienza.

Ma il vero mistero di tutta la storia resta quello legato al piccolo Angelo, un bambino che sembra parlare con un fantasma di nome Arturo (che nessuno vede e sente escluso lui), e a un frammento della statua di Sant’Anna che il soldato Sam Train, l’omone che instaura un rapporto molto affettuoso con il piccolo Angelo, si porta sempre dietro come un amuleto. Al termine della pellicola, però, la sensazione di aver assistito ad un film di guerra non particolarmente originale e un po’ troppo lungo si fa strada nella mente dello spettatore, che da uno Spike Lee in stato di grazia si sarebbe aspettato ben altro miracolo. Un vero miracolo.

Il ritorno a Roma dell'Arlecchino mascherato

Entrare nel mondo di Pablo Picasso vuol dire varcare la soglia al di là della quale non ci sono certezze di sorta, dove ogni opera sembra essere la conferma del passato dell’artista ma anche del suo futuro che, prima o poi, subirà una forte scossa di assestamento. E se quando parliamo di artista ci riferiamo al camaleontico Pablo Picasso, uno dei più rappresentativi e originali artisti del secolo breve, quel Novecento al quale ci sentiamo ancora tutti indissolubilmente legati, allora la meraviglia degli occhi dello spettatore è almeno pari alla capacità repentina di cambiamento che contraddistingue la poetica pittorica di Pablo Picasso.
Ecco perché il titolo della mostra - L’Arlecchino dell’Arte - inaugurata lo scorso 11 ottobre presso il Complesso del Vittoriano a Roma (e che vi resterà fino all’8 febbraio 2009) sembra essere perfettamente in sintonia con il sentire artistico del pittore spagnolo. Cambiare più volte identità, indossando a suo piacere i panni del cubista e del neoclassico, del surrealista e dell’espressionista, fanno di Picasso un autentico Arlecchino mascherato, pronto a sorprendere ogni volta in maniera diversa gli adoratori delle sue tele.
E anche la location di questa interessante mostra, Roma per l’appunto, assume un significato particolare alla luce dei 180 lavori esposti – tra oli, sculture e incisioni su carta – una parte dei quali fu realizzata proprio nella capitale durante il breve soggiorno (dal febbraio al maggio 1917) del pittore in Italia. Ecco dunque imbatterci, all’inizio della mostra, nella sgargiante e inafferrabile siluette La donna italiana, dipinta nel suo studio di Via Margutta, una decostruzione in stile cubista di una ragazza in vesti tradizionali, con sullo sfondo l’accenno semplice ma efficace della cupola di San Pietro.
Proseguendo nella rassegna ecco poi trovarci al cospetto del soggetto tematico dell’intera mostra, l’Arlecchino dipinto a Barcellona nel 1924, che sta lì a dimostrare ancora una volta l’eclettismo insito nell’essere-artista del pittore spagnolo. L’Arlecchino diviene così una metafora di colui che può diventare chiunque desideri, come Picasso poté dipingere, a suo piacimento, quadri cubisti e neoclassici (vedi Donna che legge), o anche astratti (Due donne davanti la finestra). Da qui possiamo dunque far risalire l’estrema elasticità delle figure ritratte dal pittore spagnolo, un’elasticità che si rifà al principio secondo il quale ogni cosa può diventare il segno di un’altra, e dove (come insegna l’astrattismo) basta anche qualche puntino al posto degli occhi per trasformare un triangolo in un volto.
Citando Picasso, “L’artista è un ricettacolo di emozioni venute da ogni parte: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una figura che passa, da una tela di ragno. Perciò l’artista non deve distinguere tra le cose. Per esse non esistono quarti di nobiltà”. Un po’ come Dio, che secondo il pittore spagnolo “non è che un altro artista. Egli ha inventato la giraffa, l'elefante e il gatto. Non ha un vero stile: non fa altro che provare cose diverse”. “Credo di sapere cosa si prova ad essere Dio”, confessò una volta Picasso, e dopo aver assistito a questa bella mostra romana ne comprendiamo ancora meglio le ragioni.

Burn After Reading

Dopo aver visto l’ultimo film dei fratelli Coen, Burn after reading – A prova di spia (ma non bastava lasciare il titolo originale?), ci sorge un dubbio: ma saremo davvero tutti così stupidi sulla faccia della Terra? Naturalmente la tesi del duo registico, fresco fresco di Oscar vinto grazie al grande film Non è un paese per vecchi, è una provocazione bella e buona. E durante i 95 minuti della pellicola, le avventure (e le disavventure) degli strampalati personaggi (tutti, non se ne salva uno) creati dai Coen sembrano stare lì apposta a confermare il loro pregiudizio.
La storia, a dir poco intricata, è questa: l’agente della CIA Osbourne Cox (interpretato da John Malkovich) viene licenziato a causa dei suoi trascorsi da alcolizzato, la moglie Katie (Tilda Swinton) lo tradisce con lo sceriffo federale Harry Pfarrer (George Clooney), un tipo fissato con il jogging e con relazioni sessuali (molto) altalenanti. Di personaggi ce ne sono ancora, ma il tutto parte dalla perdita di un cd nel quale l’ex agente Cox ha trascritto le sue memorie, e che finisce nelle mani di Linda (Frances McDormand) e Chad (Brad Pitt), due dipendenti di una palestra l’uno più strampalato dell’altro.
Lei alle ricerca disperata di un prestito per potersi permettere un’operazione di chirurgia plastica, e lui sempre lì pronto ad esibire il suo corpo atletico e il ciuffo a dir poco ribelle, con delle perenni cuffie nelle orecchie tanto per confermare – se ce ne fosse bisogno – la sua completa estraneità dalla realtà del mondo. Il personaggio sembra, infatti, un bambino un po’ troppo cresciuto (solo fisicamente, però). Quale migliore idea – pensano allora Linda e Chad – di ricattare il proprietario del cd in cambio di una lauta ricompensa?
Così ben presto i due si rendono conto di essersi immischiati in un gioco più grande di loro, dove alla fine dei conti non si sa bene se ha contato di più l’astuzia, la stupidità o il cinismo. Magari tutti e tre insieme. E questo sembra essere il maggior problema del nuovo film dei fratelli Coen, alle prese con un soggetto un po’ troppo confusionario, a tratti anche divertente ma di una comicità spesso alimentata artificiosamente da parolacce e da situazioni non particolarmente stuzzicanti. E al termine della storia uno si chiede: di sicuro registi, attori & troupe si saranno divertiti, ma noi invece?

Gone Baby Gone


di Paolo Massa

Avete amato senza sosta il capolavoro di Clint Eastwood Mystic River, e non vi siete più dimenticati la meravigliosa ambientazione in una torbida e fredda Boston? Vi siete chiesti a più riprese dove alberga la verità che ognuno di noi cerca disperatamente di afferrare per meglio comprendere i misteri delle proprie vite? Allora il sorprendente debutto alla regia di Ben Affleck, con il film Gone Baby Gone, tratto anch’esso, come Mystic River, da un romanzo di Dennis Lehane (La casa buia, Piemme edizioni), farà di certo al caso vostro.

Una bambina è misteriosamente scomparsa, si chiama Amanda McCready, ha solo quattro anni e si è letteralmente volatilizzata nel malfamato quartiere di Dorchester, a Boston, dove viveva insieme alla madre e ai nonni. Subito i mezzi di informazione, televisione in primis, si lanciano sulla notizia, stazionando giorno e notte di fronte alla casa della famiglia McReady. Il caso diventa di interesse pubblico, e la polizia, con a capo il capitano Jack Doyle (Morgan Freeman), cerca in tutti i modi di trovare qualche indizio utile alle indagini. Intanto vengono assunti dalla nonna della bambina anche due agenti privati, specializzati nel ritrovamento di persone scomparse, interpretati da Casey Affleck (fratello di Ben) nei panni di Patrick Kenzie e da Michelle Monaghan nel ruolo di Angela Gennaro.

Patrick e Angela sono fidanzati, ma non sanno se accettare o meno il caso della piccola Amanda, sconvolti anche loro in prima persona dalla tragica vicenda. Da subito, dunque, non appena la coppia decide di seguire qualche pista per ritrovare la bambina, si comprende che il film è tutto incentrato sull’eterna lotta tra bene e male, tra verità e menzogna, e nella ricerca affannosa di quella verità da tutti tanto anelata, ci si imbatterà in segreti che non avrebbero dovuto essere svelati. E i personaggi in prima persona, di fronte a scelte che metteranno a dura prova la loro capacità di discernere tra giusto e sbagliato, dovranno fare i conti con se stessi.
Questo ci sembra il maggior pregio della pellicola, uscita in Italia lo scorso aprile ma quasi invisibile nelle nostre sale: pensate che nel Regno Unito il film fu posticipato da dicembre 2007 a giugno 2008 per paura di troppi evidenti richiami della storia alla vicenda (vera) della scomparsa di Madeleine McCann. Una pellicola che non lascia spazio alcuno a consolazioni dell’ultima ora, anche perché quando si è costretti, in questo caso dalla propria coscienza, a prendere decisioni sì giuste ma pur sempre dolorose, ognuno sarà consapevole, come lo è Patrick Kenzie, di dover alla fin fine rinunciare ai propri desideri che spesso cozzano con la cosa giusta da fare. Quale strada imboccare? Un film da non perdere.

sabato 1 novembre 2008

La nuova Londra

La nuova Londra di Marco Niada, giornalista de Il Sole 24 Ore, è un libro (come dice il sottotitolo) sulla Capitale del XXI secolo, dove già a partire dai numeri restiamo meravigliati. Come potrebbe essere diversamente in una città con 7,6 milioni di abitanti, che entro il 2011 supererà anche gli 8 milioni? Senza contare che Londra, “dove si parlano 300 lingue e abitano persone provenienti da 90 paesi”, scrive Niada, “è sede di ben 175 ambasciate su 191 paesi membri delle Nazioni Unite”. In perfetto stile global.
D’altra parte, come ben ci spiega a suon di numeri Marco Niada, la forza di Londra è proprio questa: “facendo leva su un’apertura totale, sulla lingua inglese, ponendosi come ponte tra Oriente e Occidente, rivisitando e rafforzando i legami con le ex colonie, dagli Usa alle Indie e, soprattutto, intercettando talenti dalle classi dirigenti europea, americana e asiatica, in virtù della flessibilità del mercato del lavoro e della capacità di creare opportunità, Londra è diventata un centro globale dell’economia della conoscenza”. Una conoscenza che spazia dall’architettura alla finanza, dal giornalismo al teatro, dalla moda al cinema, fino alle prestigiose università che attirano studenti da tutto il mondo.
Una città dunque che accoglie tanti immigrati, e proprio “l’immigrazione”, sottolinea Niada, “è un termometro del successo di un paese, di una regione o di una città”, dal momento che “in un mondo sempre più globalizzato, se nessuno vuole andare a vivere in un luogo, la purezza etnica ne riflette semplicemente arretratezza economica, inacessibilità geo-politica o problemi sociali”. Ecco entrare in gioco allora il celebre teorema di Wimbledon, dal famoso torneo di tennis che, ogni anno, ospita i migliori giocatori su piazza per uno spettacolo sportivo che non manca mai di deludere gli appassionati. Come scrive Marco Niada, anche se “gli inglesi non vincono da decenni, ciò che conta è avere un buon campo, regole chiare che vengono fatte osservare, la capacità di richiamare i migliori professionisti da ogni parte del mondo e un circo mediatico-informativo in grado di proiettare l’evento ai quattro angoli del mondo”.
Volete un esempio più concreto? Pensate all’industria automobilistica britannica che, sebbene sia ora tutta in mano agli stranieri, produce la bellezza di 1,8 milioni sul proprio territorio, “quasi il doppio dell’Italia”, scrive Niada, “che ha gelosamente difeso l’industria nazionale fino a rischiare il fallimento della FIAT”. E se applicassimo il caso di Wimbledon anche al mondo universitario britannico, cosa scopriremmo? Un dato che, in quanto italiani, ci renderebbe più orgogliosi del nostro sistema accademico ma fino a un certo punto.
Secondo uno studio pubblicato nel gennaio 2007 e curato dall’addetto scientifico dell’ambasciata d’Italia a Londra, Salvator Roberto Amendolia, l’88% degli intervistati (su un campione di 150 accademici che lavorano oltre Manica) pensa “che il nostro paese dà una migliore preparazione universitaria rispetto alla Gran Bretagna”. Qual è il problema, allora? “Mettere a frutto tale educazione, insegnando e facendo ricerca”, è il vero problema made in Italy, dicono gli accademici italiani in Gran Bretagna, che al Bel Paese ci pensano spesso, ma la realtà prende poi il sopravvento e i loro sogni italiani ritornano nel cassetto. Sarà anche per questo che Londra è diventata la Capitale del XXI secolo?