di Paolo Massa
Entrare nel mondo di Pablo Picasso vuol dire varcare la soglia al di là della quale non ci sono certezze di sorta, dove ogni opera sembra essere la conferma del passato dell’artista ma anche del suo futuro che, prima o poi, subirà una forte scossa di assestamento. E se quando parliamo di artista ci riferiamo al camaleontico Pablo Picasso, uno dei più rappresentativi e originali artisti del secolo breve, quel Novecento al quale ci sentiamo ancora tutti indissolubilmente legati, allora la meraviglia degli occhi dello spettatore è almeno pari alla capacità repentina di cambiamento che contraddistingue la poetica pittorica di Pablo Picasso.
Ecco perché il titolo della mostra - L’Arlecchino dell’Arte - inaugurata lo scorso 11 ottobre presso il Complesso del Vittoriano a Roma (e che vi resterà fino all’8 febbraio 2009) sembra essere perfettamente in sintonia con il sentire artistico del pittore spagnolo. Cambiare più volte identità, indossando a suo piacere i panni del cubista e del neoclassico, del surrealista e dell’espressionista, fanno di Picasso un autentico Arlecchino mascherato, pronto a sorprendere ogni volta in maniera diversa gli adoratori delle sue tele.
E anche la location di questa interessante mostra, Roma per l’appunto, assume un significato particolare alla luce dei 180 lavori esposti – tra oli, sculture e incisioni su carta – una parte dei quali fu realizzata proprio nella capitale durante il breve soggiorno (dal febbraio al maggio 1917) del pittore in Italia. Ecco dunque imbatterci, all’inizio della mostra, nella sgargiante e inafferrabile siluette La donna italiana, dipinta nel suo studio di Via Margutta, una decostruzione in stile cubista di una ragazza in vesti tradizionali, con sullo sfondo l’accenno semplice ma efficace della cupola di San Pietro.
Proseguendo nella rassegna ecco poi trovarci al cospetto del soggetto tematico dell’intera mostra, l’Arlecchino dipinto a Barcellona nel 1924, che sta lì a dimostrare ancora una volta l’eclettismo insito nell’essere-artista del pittore spagnolo. L’Arlecchino diviene così una metafora di colui che può diventare chiunque desideri, come Picasso poté dipingere, a suo piacimento, quadri cubisti e neoclassici (vedi Donna che legge), o anche astratti (Due donne davanti la finestra). Da qui possiamo dunque far risalire l’estrema elasticità delle figure ritratte dal pittore spagnolo, un’elasticità che si rifà al principio secondo il quale ogni cosa può diventare il segno di un’altra, e dove (come insegna l’astrattismo) basta anche qualche puntino al posto degli occhi per trasformare un triangolo in un volto.
Citando Picasso, “L’artista è un ricettacolo di emozioni venute da ogni parte: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una figura che passa, da una tela di ragno. Perciò l’artista non deve distinguere tra le cose. Per esse non esistono quarti di nobiltà”. Un po’ come Dio, che secondo il pittore spagnolo “non è che un altro artista. Egli ha inventato la giraffa, l'elefante e il gatto. Non ha un vero stile: non fa altro che provare cose diverse”. “Credo di sapere cosa si prova ad essere Dio”, confessò una volta Picasso, e dopo aver assistito a questa bella mostra romana ne comprendiamo ancora meglio le ragioni.
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