Clint Eastwood è un vero maestro della Settima Arte. E con questo suo ultimo film, “Changeling”, lo dimostra ancora una volta pur non ripetendo il miracolo che gli riuscì con altre due splendide pellicole, “Mystic River” e “Million Dollar Baby”. Non convince a pieno, infatti, l’eccessiva spinta melodrammatica del finale, a tratti un po’ troppo dilatato nel tempo e ridondante. Ma la semplicità disarmante con la quale il regista americano riesce ogni volta ad essere classico e moderno al tempo stesso non manca mai di stupirci.
In questa sua ultima fatica dietro la macchina da presa è sempre la regia a mostrarci l’armonia classica grazie alla quale Eastwood sa trasmetterci il senso profondo di un’epoca (in questo caso l’America degli anni 20, poco prima della Grande Depressione), di un luogo, di un personaggio e quindi di una storia, che non si ferma mai ad una semplice ricostruzione dei fatti, immancabilmente tesa a riflettere anche sul nostro presente.
La storia (vera) che vede come protagonista una splendida Angelina Jolie (nei panni di Christine Collins) è ambientata in una apparentemente tranquilla Los Angeles del 1928, dove madre e figlio vivono la loro vita. Ben presto, però, un evento inatteso – la scomparsa del piccolo Walter Collins – farà piombare la povera madre in una disperazione senza appello, accentuata dalla condotta a dir poco scorretta del dipartimento di polizia di Los Angeles che pretenderà a tutti i costi di affidare alla signora Collins un bambino ritrovato spacciandolo deliberatamente per suo figlio.
La donna, confusa per lo shock di aver forse riavuto indietro l’amato Walter, crede alla versione della polizia pur essendo convinta (almeno all’inizio) che quel bambino non sia il suo bambino. Ma ormai sono trascorsi diversi mesi dalla scomparsa, e il ragazzino può anche aver subito qualche cambiamento. Dopo qualche giorno però la madre non ha più dubbi, quello di sicuro non è il suo Walter, e nel vano tentativo di dimostrarlo agli agenti di polizia finisce per essere presa per pazza e sbattuta illegalmente in un manicomio. Fortunatamente entra in gioco il pastore della comunità (un superbo John Malkovich) che approfitta della vicenda di Christine Collins per aiutarla ma anche per saldare i conti, una volta per tutte, con il corrotto e violento Los Angeles Police Department, denunciandone le malefatte dai microfoni della sua radio.
La pellicola ci mostra così, sequenza dopo sequenza, la discesa agli inferi di una donna che in nome di un sacrosanto diritto – pretendere che le indagini del figlio continuino – non perde mai quella speranza cui lo spettatore invece sembra non credere più. Ma la forza d’animo dell’eroina di Clint Eastwood (come per la pugile dell’insuperato “Million Dollar Baby”) diviene il simbolo tangibile di una resistenza che qualsiasi uomo (compresa una donna, e forse anche di più) può sbattere in faccia a quelle istituzioni (oggi come ieri) che non sempre lavorano al fianco del cittadino, cercando anzi di calpestarlo impunemente. E il volto segnato dal dolore e dalla speranza di un’agguerrita Angelina Jolie sta lì a dimostrarlo con tutta la sua forza dopo ben 80 anni dai fatti narrati.
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