di Paolo Massa
Con Miracolo a Sant’Anna, il nuovo (e primo) film di guerra di Spike Lee, il regista afroamericano che ha diretto in passato pellicole del calibro di La 25a ora e di When the leeves broke. A requiem in four acts - uno straziante omaggio agli sfortunati cittadini di New Orleans devastati dall’uragano Katrina - ritorna nelle sale con questa sua prima opera bellica ambientata principalmente nella Toscana del 1944 durante la Seconda guerra mondiale. La pellicola, a dire il vero, ha inizio nel 1984, quando vediamo un impiegato di colore delle poste di New York sparare senza esitazione ad un cliente che sta per spedire delle lettere.
Immancabili le polemiche qui in Italia subito dopo l’uscita del film, a causa della non particolarmente rosea rappresentazione che se ne dà della resistenza partigiana, ma l’autore mette subito in chiaro le cose spiegando con una didascalia introduttiva che il corpus della storia è basato unicamente sui fatti narrati da James McBride nel suo omonimo romanzo. Non si mette in dubbio, dunque, la verità storica della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, dove senza alcuna ragione le SS trucidarono il 12 agosto 1944 ben 560 persone, comprese donne e bambini, mentre nel film si ipotizza invece che l’eccidio fu frutto di una rappresaglia alle scorribande dei partigiani contro i soldati tedeschi.
La macchina da presa segue quattro soldati neri appartenenti alla 92° divisione Buffalo Soldiers dell’esercito statunitense, che dopo un violento conflitto a fuoco contro i crucchi riescono a fuggire, insieme a un bambino (Angelo) trovato ferito nei boschi intorno, rimanendo poi bloccati in un piccolo paese al di là delle linee nemiche. Da subito si comprende il punto di vista dal quale Spike Lee intende narrare la storia e la sua verità sui tanti, troppi soldati di colore mandati a morire durante la Seconda guerra mondiale. E soprattutto per questa scelta la pellicola ci appare un tantino di parte – neri buoni, bianchi cattivi – finendo per compiere lo stesso errore di cui era stato accusato Clint Eastwood, dallo stesso Spike Lee, per aver girato senza attori di colore il film bellico Flags of our fathers. Come dire: la guerra è (e dovrebbe) essere uguale per tutti, sia in vita che in punto di morte.
Una volta giunti nel paesino sperduto tra il fiume Serchio e le montagne, i quattro soldati cominciano a familiarizzare, non senza qualche difficoltà, con gli abitanti del posto, tra i quali si distingue la bella Valentina Cervi (che interpreta, un po’ sopra le righe, una ragazza troppo disinibita per i tempi che correvano all’epoca), e il sempre ottimo Pierfrancesco Favino nella parte di un partigiano alle prese con i rimorsi della propria coscienza.
Ma il vero mistero di tutta la storia resta quello legato al piccolo Angelo, un bambino che sembra parlare con un fantasma di nome Arturo (che nessuno vede e sente escluso lui), e a un frammento della statua di Sant’Anna che il soldato Sam Train, l’omone che instaura un rapporto molto affettuoso con il piccolo Angelo, si porta sempre dietro come un amuleto. Al termine della pellicola, però, la sensazione di aver assistito ad un film di guerra non particolarmente originale e un po’ troppo lungo si fa strada nella mente dello spettatore, che da uno Spike Lee in stato di grazia si sarebbe aspettato ben altro miracolo. Un vero miracolo.
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