mercoledì 23 luglio 2008

L'ultimo viaggio di Cesare Pavese

E se la scrittura, giorno dopo giorno, del suo personalissimo diario avesse dato a Cesare Pavese la forza per continuare a vivere, per meglio comprendere il travaglio della sua esistenza terrena? E se l’interruzione di quella corrispondenza con la propria anima gli avesse anche fatto decidere, dopo vari tentativi falliti, di porre fine alla sua vita? A rileggere Il mestiere di vivere, raccolta sotto forma di diario delle confessioni a cuore aperto dello scrittore piemontese, ci vien da pensare che quest’opera, pubblicata postuma nel 1952 da Einaudi dopo la morte due anni prima di Pavese, significò molto per l’autore tanto da scrivervi alla data 16 agosto 1950: “La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”; per poi proseguire il 18 agosto: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. Solo qualche giorno dopo, il 27 agosto 1950, lo scrittore cederà il passo all’uomo (forse) distrutto dall’ennesima delusione d’amore, imboccando la tragica via del suicidio. Sembra quasi che Pavese, nell’imprimere su carta le riflessioni sulla propria vita, sapesse che quelle pagine si sarebbero concluse insieme a lui, con la sua morte, quando non ci sarebbe stato più un motivo per scrivere. A rileggerle, quelle riflessioni, a cento anni dalla sua nascita (nel 1908) in un piccolo paese in provincia di Cuneo, fa una certa impressione notare l’estrema attualità dei pensieri intimi di Pavese, che in un dialogo incessante con i suoi lettori, oggi come ieri, sembra parlarci di sé stesso ma anche di noi tutti. Ecco perché avvicinarsi allo scrittore piemontese, e al suo mestiere di vivere, vuol dire farsi un esame di coscienza letterario, pronti magari a riconoscersi nelle sfumature dei sentimenti dell’autore. “Leggendo non cerchiamo idee nuove” scrive il 3 dicembre 1938, “ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi”. Alla data 29 settembre 1938 invece leggiamo: “Si odia ciò che si teme, ciò quindi che si può essere, che si sente di essere un poco. Si odia se stessi”. Le riflessioni di Pavese sono lucidissime nel delineare i turbamenti dell’animo umano, che diventano i turbamenti dell’umanità intera alle prese con le frustrazioni quotidiane: si legge così al giorno 26 novembre 1937 che “Tutti gli uomini hanno un cancro che li rode, un escremento giornaliero, un male a scadenza: la loro insoddisfazione”. Quello stesso cancro che portò al suicidio Cesare Pavese? Quella stessa insoddisfazione che gli fece scrivere che “tutto il problema della vita è (…) come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri”? Non resta altro che affidarci, in mancanza di risposte certe, alle parole e alle speranze dell’autore stesso, che il 16 febbraio 1936 si chiedeva “Quale mondo giaccia di là di questo mare non so, ma ogni mare ha l’altra riva, e arriverò”. Raggiunse mai quell’altra riva, Cesare Pavese?

Due cuori e una chitarra

Un giovane irlandese di belle speranze sogna di poter incidere un album tutto suo. Una ragazza della Repubblica Ceca, immigrata a Dublino insieme alla madre e alla figlia, desidera trovare un impiego decente. Lui lavora nel negozio del padre, dove ripara aspirapolveri, ma appena può scappa in centro con l’inseparabile chitarra per esibirsi e guadagnare magari qualche spicciolo. Lei vende fiori per la strada, per arrotondare i magri guadagni, e sembra essere l’unica ad ascoltare le belle canzoni del giovane quando gli passa accanto. Una sera decide di fermarsi a parlare, e di dirgli quanto sia bravo. Lui allora le confessa che le canzoni che suona la notte sono sue, perché tanto di giorno la gente vuole sentire solo canzoni famose. Da un incontro (musicale) ha inizio così Once, il bel film diretto dal regista irlandese John Carney, che dopo aver fatto il giro di numerosi festival cinematografici (compreso il Sundance Film Festival di Robert Redford) è approdato anche alla serata finale degli Oscar 2008, dove ha portato a casa la statuetta per la miglior canzone originale assegnata al brano Falling Slowly. Non a caso la musica è un personaggio aggiunto alla storia narrata. E’ a tempo di musica, infatti, che i due ragazzi muovono i loro passi (quasi d’amore) in una grigia e passionale Dublino, quasi come se assistessimo ad un vero e proprio musical d’altri tempi. Così le vicende dei due musicisti (perché ben presto si scoprirà che anche lei è un’abile pianista) sembrano essere racchiuse, quasi magicamente, in un altro tempo e in un’altra dimensione: la dimensione dell’amore. E’ l’affetto tra i due personaggi (interpretati da Glen Hansard e Marketa Irglova, autori del brano Falling Slowly) ad accrescere questa sensazione di estraniamento dalla realtà quotidiana, sempre più venata di solitudine e cuori infranti, con una Dublino che ben la rappresenta nell’incessante passeggiare di una folla indistinta agli occhi dello spettatore (e non solo). Anche agli occhi dei due protagonisti (lui ferito da una storia d’amore finita male, lei immigrata ancora non del tutto integrata) questa folla appare come qualcosa di estraneo ai sogni e alle sofferenze delle proprie vite. Ma sarà proprio la musica, che permetterà loro di riscoprire sé stessi, a diventare il simbolo di un riscatto tanto difficile quanto sperato, l’anello di congiunzione mancante tra le anime sognanti di due giovani in cerca di affetto. Ci sono film che aprono uno squarcio sulla nostra realtà in modi per noi impensabili, come quando guardandoci allo specchio ci accorgiamo di particolari mai notati prima. Once ne è un esempio lampante, fungendo da vero e proprio specchio capace di riflettere pezzi delle nostre vite ben rappresentate dai personaggi sullo schermo. E il film, grazie soprattutto a splendidi sfondi musicali – che costellano gran parte della pellicola, impreziosendola non poco – riesce a toccarci nel profondo con i testi delle canzoni a sostituire spesso le parole dei due protagonisti, più a loro agio nel cantare che nel parlare. E’ la musica che li fa conoscere, è la musica che li fa frequentare, sarà la musica che li farà maturare insieme, anche se per un breve tratto di strada, un tratto pur sempre indimenticabile e prodigo di speranze future.

Io invece studio all'estero, e tu?

Chissà se, prima o poi, si prenderà il largo”, si chiede in apertura del libro Io invece studio all’estero Loredana Oliva, giornalista di “Il Sole 24 Ore” specializzata sui temi dell’istruzione e del lavoro, che in questo saggio ci spiega, con storie di vita vissuta e utili informazioni sulle borse di studio offerte dai sistemi d’istruzione stranieri, quanto un’esperienza oltre i confini italiani possa arricchire il bagaglio culturale (e non solo) di uno studente. A lei è capitato da giovane studentessa di giornalismo, grazie all’ambito programma “Journaliste en Europe” promosso da Hubert Beuve-Méry, fondatore del giornale “Le Monde”, e dopo questo soggiorno in Francia insieme ad altri colleghi, per tutti loro è ora “un po’ più difficile essere chiusi, intolleranti, razzisti, ingenerosi”. Studiare all’estero, dunque, per aprire la propria mente al mondo sterminato di nuove lingue e culture, e per comprendere a pieno come funzionano (se meglio o peggio) i sistemi universitari (ma anche liceali) di altri paesi. Come dire: unire l’utile al dilettevole. Durante la lettura del libro di Loredana Oliva spiccano alcune statistiche che, purtroppo, non ci consolano in quanto italiani. “Tra i nostri universitari”, scrive la giornalista, “solo il 2% fa un’esperienza all’estero. Gli universitari in mobilità più numerosi sono gli australiani (oltre il 17%), e i francesi, che raggiungono quota 10%. (…) Nel confronto tra 28 Paesi europei dal 2000 al 2005, tra gli Stati partecipanti al programma Erasmus, l’Italia si ferma a quota 76.500 studenti mentre la Francia sfonda il tetto dei 97.000”. Secondo l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), inoltre, “l’Italia accoglie meno del 2% di studenti internazionali, a fronte del 9% della Francia e del 10% della Germania, per salire al 22% degli Stati Uniti”. Basti pensare tra l’altro che solo il 36% degli italiani, secondo i dati dell’Eurobarometro (Europeans and their Languages, 2006), conosce una lingua diversa da quella madre, al di sotto quindi della media europea pari al 50% di cittadini europei capaci di parlare una lingua straniera. Anche sul fronte lavorativo, per finanziarsi parte dei propri studi, gli studenti italiani sono in svantaggio rispetto ai cugini europei: “In Irlanda gli studenti pagano almeno la metà del costo dei loro studi lavorando”, scrive Loredana Oliva, mentre in Italia “proviene dalle famiglie oltre il 60% delle risorse di cui dispongono gli studenti fuori sede”. Insomma, ad alzare un po’ lo sguardo oltre i nostri confini ci sarebbe tanto da imparare. Un altro piccolo esempio: lo sapevate che all’estero molti ragazzi, dopo il diploma di scuola superiore o dopo i primi tre-quattro anni di università (bachelor), decidono di spendere un anno intero (il cosiddetto “gap year”) per partire da soli in giro per il mondo, alla ricerca di un lavoro e di qualche altra lingua da imparare? C’è addirittura un libro (in lingua inglese) edito dalla Lonely Planet, “The Gap Year Book”, per chiunque volesse trascorrere 365 giorni alle prese con i propri sogni da realizzare. Siete pronti a prendere il largo, allora?

IL DIVO siamo noi?

di Paolo Massa
Il Divo è un film ispirato ad una storia (solo) italiana? A quanto pare no, se si vuole dare una certa rilevanza al trionfo - con il Premio della Giuria, all’ultimo Festival di Cannes - del nuovo, sorprendente film del regista napoletano Paolo Sorrentino. Come si spiegherebbe, altrimenti, il successo francese di una pellicola che, analizzando una delle figure politiche più ambigue e misteriose made in ItalyGiulio Andreotti, alias il Divo -, sembra voler fare in realtà una panoramica sul Potere a 360°, un Potere che non solo in Italia, ci suggerisce il regista, ha qualche scheletro nell’armadio? E lo stile con cui, Paolo Sorrentino, filma questo Potere (politico) oscuro, ripercorrendo gli anni delle stragi impunite e dei processi alla classe dirigente (compreso Andreotti), ci dice in parte quello che sapevamo già: il regista napoletano è uno dei più talentuosi su piazza (italiana). Ma qual è questo stile, che tanto ha affascinato i giurati di Cannes 2008, compreso il presidente americano (nonché regista e attore tra i migliori in circolazione) Sean Penn? E’ uno stile inconfondibile e suadente, che sorprende lo spettatore dall’inizio alla fine con immagini virtuose e mai prive di un fascino misterioso, al pari della misteriosa e (quasi) impenetrabile maschera del divo Giulio Andreotti. Sempre prodigo di sorprese visivamente inaspettate, in particolare negli atteggiamenti grotteschi (e quasi caricaturali) dei singoli personaggi splendidamente interpretati da Toni Servillo (nei panni del divo), Carlo Buccirosso (nelle vesti di Paolo Cirino Pomicino), Massimo Popolizio (che interpreta lo squalo Vittorio Sbardella) e Anna Bonaiuto (Livia, la moglie del divo), il film è uno spettacolo per gli occhi dello spettatore pronto a godere di ogni singola inquadratura e sequenza. Per non parlare poi delle frequenti battute ad effetto di Andreotti, lucido anche nei momenti più tesi ma sempre capace di dispensare perle di saggezza da divo consumato. Un esempio su tutti: “Non ho mai creduto che sia possibile distinguere gli uomini in due categorie, angeli e diavoli. Siamo tutti medi peccatori”. Ma la grandezza del film di Sorrentino è anche nella passione civile (mista a una sana dose di fantasia cinematografica) con la quale il regista ha cercato di dare un ordine (nel disordine) ad una realtà storica, come quella italiana degli ultimi quaranta anni, priva di qualsivoglia verità ultima capace di assegnare a ciascun protagonista della nostra vita pubblica le proprie responsabilità. Un film che diverte e intimorisce al tempo stesso, nel suo incedere ambiguo tra una sfera privata (di Andreotti) a tratti grottesca – ma anche piena di umanità - e una sfera pubblica (quella italiana) sempre più tragica nel dipanarsi incessante dei suoi tanti, troppi misteri ancora insoluti. Specchio riflesso dei tempi che viviamo? Ai posteri l’ardua sentenza.

domenica 13 luglio 2008

"Io so ascoltare gli altri"

La tv, l'ho sempre detto, è una palla magica, bisogna stare molto attenti. Le persone che ci vanno, pur altamente qualificate, hanno un grande problema: quello che si autoascoltano. La mia dote è una sola: io so ascoltare gli altri. Pendo dalle labbra. Sia dalla persona che telefona che forse è l'ultima contadina dell'ultima campagna più misera d'Italia. Sapete perchè? Perchè la mia cultura non è nata attraverso i libri, è nata dalla curiosità, io sono più curioso di una scimmia. Voglio sentire quello che c'è nel vostro cuore, nel vostro animo, nei vostri desideri, nelle vostre differenze.

giovedì 3 luglio 2008

L'Italia delle Veline

Sfoglio un po' la rassegna stampa della Camera dei Deputati e mi imbatto nell'articolo di oggi scritto da Luca Ricolfi su La Stampa. Ne riporto la conclusione tanto per convincermi una volta di più che in Italia si ha il brutto vizio di restare (quasi) sempre alla superficie dei problemi. Meno tasse, più sicurezza, lotta agli sprechi: che fretta c'è? Scrive Ricolfi: "Niente diminuzione delle tasse. Improbabile aumento della sicurezza. Scarsa riduzione degli sprechi. Questo mi sembra quel che rischiamo nei prossimi anni. E tutto perché, mentre su questo si decideva, eravamo concentrati tutti quanti su un solo sia pure importantissimo nodo politico: la 374esima puntata della serie tv «Io, le veline e i magistrati»". Di chi è la colpa? Un'idea io ce l'avrei.