mercoledì 23 luglio 2008

IL DIVO siamo noi?

di Paolo Massa
Il Divo è un film ispirato ad una storia (solo) italiana? A quanto pare no, se si vuole dare una certa rilevanza al trionfo - con il Premio della Giuria, all’ultimo Festival di Cannes - del nuovo, sorprendente film del regista napoletano Paolo Sorrentino. Come si spiegherebbe, altrimenti, il successo francese di una pellicola che, analizzando una delle figure politiche più ambigue e misteriose made in ItalyGiulio Andreotti, alias il Divo -, sembra voler fare in realtà una panoramica sul Potere a 360°, un Potere che non solo in Italia, ci suggerisce il regista, ha qualche scheletro nell’armadio? E lo stile con cui, Paolo Sorrentino, filma questo Potere (politico) oscuro, ripercorrendo gli anni delle stragi impunite e dei processi alla classe dirigente (compreso Andreotti), ci dice in parte quello che sapevamo già: il regista napoletano è uno dei più talentuosi su piazza (italiana). Ma qual è questo stile, che tanto ha affascinato i giurati di Cannes 2008, compreso il presidente americano (nonché regista e attore tra i migliori in circolazione) Sean Penn? E’ uno stile inconfondibile e suadente, che sorprende lo spettatore dall’inizio alla fine con immagini virtuose e mai prive di un fascino misterioso, al pari della misteriosa e (quasi) impenetrabile maschera del divo Giulio Andreotti. Sempre prodigo di sorprese visivamente inaspettate, in particolare negli atteggiamenti grotteschi (e quasi caricaturali) dei singoli personaggi splendidamente interpretati da Toni Servillo (nei panni del divo), Carlo Buccirosso (nelle vesti di Paolo Cirino Pomicino), Massimo Popolizio (che interpreta lo squalo Vittorio Sbardella) e Anna Bonaiuto (Livia, la moglie del divo), il film è uno spettacolo per gli occhi dello spettatore pronto a godere di ogni singola inquadratura e sequenza. Per non parlare poi delle frequenti battute ad effetto di Andreotti, lucido anche nei momenti più tesi ma sempre capace di dispensare perle di saggezza da divo consumato. Un esempio su tutti: “Non ho mai creduto che sia possibile distinguere gli uomini in due categorie, angeli e diavoli. Siamo tutti medi peccatori”. Ma la grandezza del film di Sorrentino è anche nella passione civile (mista a una sana dose di fantasia cinematografica) con la quale il regista ha cercato di dare un ordine (nel disordine) ad una realtà storica, come quella italiana degli ultimi quaranta anni, priva di qualsivoglia verità ultima capace di assegnare a ciascun protagonista della nostra vita pubblica le proprie responsabilità. Un film che diverte e intimorisce al tempo stesso, nel suo incedere ambiguo tra una sfera privata (di Andreotti) a tratti grottesca – ma anche piena di umanità - e una sfera pubblica (quella italiana) sempre più tragica nel dipanarsi incessante dei suoi tanti, troppi misteri ancora insoluti. Specchio riflesso dei tempi che viviamo? Ai posteri l’ardua sentenza.

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