martedì 28 luglio 2009

La fortuna non esiste, di Mario Calabresi

«The End of Excess», la fine degli eccessi. Così titolava in prima pagina, lo scorso 6 aprile, il settimanale americano Time. Nei diciotto mesi precedenti, scrive il neodirettore de La Stampa Mario Calabresi nel libro La fortuna non esiste. Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi, «abbiamo assistito alla più grande perdita di ricchezza mai vista nel secondo dopoguerra, al crollo di Wall Street e del sistema finanziario, alla fine dei dogmi del liberismo anglosassone, a un piano senza precedenti di intervento pubblico nell’economia degli Stati Uniti e alla processione dei manager licenziati che se ne vanno dall’ufficio con una scatola tra le braccia».

Case pignorate e vetrine dei negozi sbarrate, queste le immagini più ricorrenti che il giornalista si è ritrovato dinanzi nel suo viaggio americano, da corrispondente de la Repubblica, durante la lunga corsa per le elezioni presidenziali che hanno visto trionfare alla Casa Bianca Barack Obama, il primo afroamericano della storia a stelle e strisce. Un viaggio all’insegna della vera testimonianza, maturata sul campo e a contatto con la gente che ha vissuto (e vive ancora) sulla propria pelle le conseguenze della crisi economico-finanziaria globale.

Ora come ora, per Mario Calabresi, è la frugalità l’umore di un Paese che «ha speso per anni molto più di quello che ha guadagnato, che in pochi mesi ha bruciato più ricchezza che in due guerre mondiali, e ora si rende conto che deve risparmiare, frenare, imparare a ricominciare». Arduo ricominciare, sì, ma meno per gli americani abituati da sempre a farlo, anche in condizioni peggiori di queste. Basti pensare a ciò che scrisse il console francese negli Stati Uniti, Paul Claudel, che proprio durante la presidenza del repubblicano Herbert Hoover, in quel 1929 del crollo della Borsa di Wall Street, ebbe modo di capire che «nel temperamento americano c’è una qualità, chiamata resiliency, che abbraccia i concetti di elasticità, di rimbalzo, di risorsa e di buon umore». Una qualità grazie alla quale se «una ragazza perde il patrimonio, senza stare a commiserarsi si metterà a lavare i piatti e a fabbricare cappelli», e «uno studente non si sentirà svilito lavorando qualche ora al giorno in un garage o in un caffè». D’altra parte, solo per ritornare ai giorni nostri, lo stesso Joe Biden, vicepresidente di Barack Obama, ha più volte detto: «Non importa quante volte cadi. Quello che conta è la velocità con cui ti rimetti in piedi».

Come è capitato a Mr Cao e alle sue cinque, rocambolesche vite, simbolo perfetto dell’American Dream fattosi realtà. La prima vita, durata solo otto anni in una Saigon stremata dal conflitto vietnamita; la seconda, iniziata a bordo di un aereo militare americano che lo portò tra le fredde pianure del Midwest; la terza, quando decise di non voler più farsi sacerdote e di trasferirsi a New Orleans per trovarsi una moglie e diventare avvocato; la quarta, costretto dopo l’uragano Katrina, che spazzò tutto e tutti (case comprese), ad acquistare un camper per garantire un tetto alla sua famiglia; e la quinta vita, il 6 dicembre 2008, quando Joseph Cao divenne il primo deputato vietnamita eletto al Congresso degli Stati Uniti d'America.

Allora è proprio vero, scrive in conclusione Mario Calabresi, che «ci vuole resistenza» perché «questa è una crisi lunga e profonda come non ne abbiamo mai viste», ed è ancor più vero che «non esiste la fortuna, esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione». Parola del buon, vecchio Seneca.

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