«Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto…io so dove le pagine dei manuali d’economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti…io so e ho le prove…le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni».
Proprio così, «riprese con le iridi, raccontate con le parole», le prove divengono patrimonio culturale della coscienza collettiva, e il miracolo della testimonianza diviene reale, concreto, grazie alle pagine di un libro, grazie alla forza della Letteratura, capace ancora una volta di farci immergere nel sotterraneo, nell’oscuro, dove l’occhio indiscreto dei media non arriva, o trova sin troppo semplice non arrivarci.
Parlare di “Gomorra”, e del suo giovane (e sotto scorta armata) autore, Roberto Saviano, significa essere consapevoli di questo punto di vista alternativo nel guardare lucidamente alle cose di “camorra”. Non è un caso, allora, sfogliando le prime pagine del libro, trovare questa citazione di Hannah Arendt: «Comprendere cosa significa l’atroce, non negarne l’esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà».
“Spregiudicatamente”, appunto, sembra essere stato il principio guida di Saviano, consapevole di doversi per forza di cose “sporcare le mani” per entrare a contatto con la dura e assurda “vita di camorra”. Come giustificare, altrimenti, questo “Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra”?
Ecco allora, con la sola forza dirompente della scrittura, come trovarsi dinanzi all’indicibile, al cospetto della morte, con il crollo dei più abusati luoghi comuni: «Quando si muore per strada si finisce con un chiasso orrendo intorno. Non è vero che si muore da soli. Si finisce con facce che non si conoscono davanti al naso, persone che toccano gambe e braccia per capire se il corpo è già cadavere o vale la pena chiamare l’autoambulanza».
Così si muore a Napoli e dintorni, dove «il mestiere di vivere», come scrive Saviano, può essere «una condanna all’ergastolo, una pena da scontare attraverso un’esistenza brada, identica, veloce, feroce»; «dove la verità è sempre la versione dei potenti, dove viene declinata raramente e pronunciata come merce rara da barattare per qualche profitto»; dove «tagliare cadaveri e spargerne i pezzi è il miglior modo per rendere indelebile un messaggio».
Leggere Gomorra, dunque, non è proprio un piacere: la cronaca dettagliata delle faide di camorra, dell’assurdo business sui rifiuti tossici, della colpevole collusione tra imprese e criminalità organizzata, ci danno al termine della lettura un’asfissiante sensazione di nausea.
Sfogliando le pagine cresce la consapevolezza di essere, seppur indirettamente, un po’ colpevoli di questo tragico status quo, e per chi vive nei dintorni di Napoli, Salerno e Caserta, quel senso di inadeguatezza e di vergogna, che ci si sente addosso come una seconda pelle, è un colpo ancor più duro inferto al proprio animo.
Scrive in conclusione il giovane scrittore napoletano: «Conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare».
Ecco perché leggere “Gomorra”.
Proprio così, «riprese con le iridi, raccontate con le parole», le prove divengono patrimonio culturale della coscienza collettiva, e il miracolo della testimonianza diviene reale, concreto, grazie alle pagine di un libro, grazie alla forza della Letteratura, capace ancora una volta di farci immergere nel sotterraneo, nell’oscuro, dove l’occhio indiscreto dei media non arriva, o trova sin troppo semplice non arrivarci.
Parlare di “Gomorra”, e del suo giovane (e sotto scorta armata) autore, Roberto Saviano, significa essere consapevoli di questo punto di vista alternativo nel guardare lucidamente alle cose di “camorra”. Non è un caso, allora, sfogliando le prime pagine del libro, trovare questa citazione di Hannah Arendt: «Comprendere cosa significa l’atroce, non negarne l’esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà».
“Spregiudicatamente”, appunto, sembra essere stato il principio guida di Saviano, consapevole di doversi per forza di cose “sporcare le mani” per entrare a contatto con la dura e assurda “vita di camorra”. Come giustificare, altrimenti, questo “Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra”?
Ecco allora, con la sola forza dirompente della scrittura, come trovarsi dinanzi all’indicibile, al cospetto della morte, con il crollo dei più abusati luoghi comuni: «Quando si muore per strada si finisce con un chiasso orrendo intorno. Non è vero che si muore da soli. Si finisce con facce che non si conoscono davanti al naso, persone che toccano gambe e braccia per capire se il corpo è già cadavere o vale la pena chiamare l’autoambulanza».
Così si muore a Napoli e dintorni, dove «il mestiere di vivere», come scrive Saviano, può essere «una condanna all’ergastolo, una pena da scontare attraverso un’esistenza brada, identica, veloce, feroce»; «dove la verità è sempre la versione dei potenti, dove viene declinata raramente e pronunciata come merce rara da barattare per qualche profitto»; dove «tagliare cadaveri e spargerne i pezzi è il miglior modo per rendere indelebile un messaggio».
Leggere Gomorra, dunque, non è proprio un piacere: la cronaca dettagliata delle faide di camorra, dell’assurdo business sui rifiuti tossici, della colpevole collusione tra imprese e criminalità organizzata, ci danno al termine della lettura un’asfissiante sensazione di nausea.
Sfogliando le pagine cresce la consapevolezza di essere, seppur indirettamente, un po’ colpevoli di questo tragico status quo, e per chi vive nei dintorni di Napoli, Salerno e Caserta, quel senso di inadeguatezza e di vergogna, che ci si sente addosso come una seconda pelle, è un colpo ancor più duro inferto al proprio animo.
Scrive in conclusione il giovane scrittore napoletano: «Conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare».
Ecco perché leggere “Gomorra”.
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