giovedì 17 giugno 2010

Quel ponte tra l'infinito e la terra


«Per vedere un panorama devi salire in alto, ma per osservare il panorama umano bisogna scendere in basso». Parola di Massimo Bubola, il cavaliere elettrico dal cuore folk, che lo scorso 20 maggio al Teatro Ciak di Milano si è esibito al fianco dell’inseparabile Eccher Band in versione allargata, con una sezione fiati (sax e tromba) capace di impreziosire un repertorio già di per sé solido.

Storico collaboratore di Fabrizio De André, e coautore con il compianto cantante genovese di alcune delle sue più belle canzoni (Fiume Sand Creek, Una storia sbagliata, Rimini, Quello che non ho, Andrea), Bubola ha aperto sulle note di La ballata dei luminosi giorni. «Si può perdere tutto senza aver mai rischiato niente», ha iniziato a cantare il cavaliere elettrico, per concludere il concerto con il cavallo di battaglia in onore dell’adorato azzurro irlandese. «Per fare questa canzone bisognerebbe aver bevuto come minimo due ettolitri di Guiness», ha detto Bubola al suo pubblico prima di salutarli sugli accordi di Il cielo d’Irlanda.

In occasione della presentazione ufficiale del dvd live in Castiglione, Massimo Bubola ha ripercorso all’insegna della memoria una carriera costellata di onestà intellettuale spesso introvabile nell’odierno panorama musicale. Quel che importa alla maggioranza –successo, visibilità, vendite – non sembra essere la stella polare del cantautore veneto, interessato più a comunicare qualcosa attraverso la forma poetica della canzone. Proprio la poesia è spesso parte integrante, soprattutto nei contenuti, della sua opera.

«Lui non voleva la pace e non voleva la guerra, solo gettare quel ponte tra l’infinito e la terra» ha cantato in Dino Campana durante il concerto milanese, e come il giovane poeta anche Massimo Bubola ha cercato di gettarlo, quel ponte tra il palco e la platea, per cantarci di uomini e donne, con storie semplici nel vortice della Storia più buia (la guerra descritta in Andrea e Rosso su verde), al ritmo del rock puro e duro. Un rock con spruzzi di folk, tra accordi di chitarre e un’armonica sempre pronta a suonare, nell’intimità di un racconto musicale che continua a fare il suo sporco mestiere: parlarci di quel misterioso panorama umano in cui ci troviamo a vivere, almeno per una sera da spettatori.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

la migliore recensione finammò, a mio modesto parere.

Paolo Massa ha detto...

dici? comunque grazie!