di Massimo Gramellini
Dei tre minuti di silenzio osservati dai cinesi per le vittime del terremoto colpiva soprattutto una cosa: il silenzio. Nelle immagini televisive nulla sembrava poter distogliere dal loro rigore quei corpi immobili e quelle labbra serrate. Un miliardo e trecentomila persone capaci di tenere la bocca chiusa e le mani ferme per tre minuti (il totale fa 7415 anni di silenzio: praticamente un’era glaciale). Il confronto con i funerali della ragazza di Niscemi assassinata dai coetanei non avrebbe potuto essere più deprimente. Applausi scroscianti alla bara, persino durante l’esecuzione del «Silenzio» da parte di un trombettiere. L’applauso in chiesa o durante le commemorazioni negli stadi è un segnale drammatico di decadenza, tanto più perché pochi sembrano darvi peso. E’ figlio della maleducazione televisiva ed esprime l’ansia di riempire un vuoto. Nelle civiltà in declino ha perso il significato originario di approvazione ed è diventato il modo di comunicare agli altri la propria esistenza. Si applaudono i morti per sentirsi vivi, senza esserlo davvero: solo dei morti viventi, infatti, possono avere tanta paura del silenzio, che li costringe a sintonizzarsi con la parte più profonda di se stessi. Ma il ribaltamento degli impulsi naturali ha trasformato il silenzio in un segnale di freddezza e l’applauso in una forma di partecipazione. I cinesi cominceranno a perdere colpi il giorno in cui scopriranno che muovere le mani e la bocca è un ottimo sistema per mettere a tacere il cuore.
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