giovedì 26 febbraio 2009
L'amore cantato dal Boss
I tempi cambiano, ma anche Bruce Springsteen - il Boss del New Jersey - cambia insieme a loro. Un cantastorie come lui, sempre pronto a scrivere e cantare del tempo che noi tutti ci troviamo a vivere giorno dopo giorno, non può non guardare alla realtà che ci circonda e agli sconvolgimenti, nel bene e nel male, che rivoluzionano i destini dell'umanità intera. Così fece subito dopo la tragedia americana delle Twin Towers a New York, nel settembre del 2001, con l'uscita del disco The Rising e così oggi, nel gennaio del 2009, quando il primo afroamericano della Storia ha fatto il suo ingresso trionfante in quella White House che molti schiavi neri contribuirono a costruire.
Parla anche di questo, il dream (sogno) che riecheggia già dal titolo del nuovo album di Bruce Springsteen, intitolato appunto Working on a Dream. Un sogno che con Barack Obama alla Casa Bianca diventa ancor più tangibile alle orecchie di chiunque ascolti le tredici (nuove) canzoni scritte dal Boss per la sua inseparabile E Street band e che riesce così a dare un senso compiuto alla speranza che sembra pervadere, come sempre, i testi e le musiche di Springsteen.
Non conta, perciò, che le storie cantate nel disco parlino perlopiù d'amore, ma importa invece che al centro dell'attenzione ci sia quella fede in un'America che, agli occhi del Boss, non ha paura di voltare pagina, dopo alcuni anni di sbandamento e incomprensione con il resto del mondo. Il coraggio di cambiare che rende forte un popolo, e che diventa così fonte inesauribile d'ispirazione per un cantautore come Springsteen, pronto ancora una volta a condividere la sua visione della vita con la sola forza dirompente della musica. Una musica che può contare sull'apporto fondamentale della band che ha fatto la fortuna del Boss, riuscendo a creare un sound tanto originale quanto inconfondibile, che nei concerti live riesce ancor di più a sprigionare quella potenza che in studio è impossibile registrare.
Così le parole d'ordine dell'album, pur essendo poche ed essenziali - su tutte love (amore) e dream (sogno) - possono benissimo trasfigurarsi, all'ascolto del disco, negli amori e nei sogni di tutti noi. Quasi come se in uno dei più suggestivi passaggi di consegne, potessimo una volta giunti alla tredicesima track di Working on a Dream impegnarci anima e corpo, da veri e propri messaggeri del verbo springsteeniano, a diffondere nel mondo la parola del Boss del New Jersey, profeta e cantore instancabile dei nostri tempi sbandati, ma a volte ricolmi di speranza. Senza però il bisogno di aspettare l'elezione di un nero alla carica di uomo più potente della terra, ma anche solo nell'attesa che il nostro cuore possa scaldarsi ancora una volta, in nome di quell'amore che a Bruce Springsteen piace tanto cantare.
Parla anche di questo, il dream (sogno) che riecheggia già dal titolo del nuovo album di Bruce Springsteen, intitolato appunto Working on a Dream. Un sogno che con Barack Obama alla Casa Bianca diventa ancor più tangibile alle orecchie di chiunque ascolti le tredici (nuove) canzoni scritte dal Boss per la sua inseparabile E Street band e che riesce così a dare un senso compiuto alla speranza che sembra pervadere, come sempre, i testi e le musiche di Springsteen.
Non conta, perciò, che le storie cantate nel disco parlino perlopiù d'amore, ma importa invece che al centro dell'attenzione ci sia quella fede in un'America che, agli occhi del Boss, non ha paura di voltare pagina, dopo alcuni anni di sbandamento e incomprensione con il resto del mondo. Il coraggio di cambiare che rende forte un popolo, e che diventa così fonte inesauribile d'ispirazione per un cantautore come Springsteen, pronto ancora una volta a condividere la sua visione della vita con la sola forza dirompente della musica. Una musica che può contare sull'apporto fondamentale della band che ha fatto la fortuna del Boss, riuscendo a creare un sound tanto originale quanto inconfondibile, che nei concerti live riesce ancor di più a sprigionare quella potenza che in studio è impossibile registrare.
Così le parole d'ordine dell'album, pur essendo poche ed essenziali - su tutte love (amore) e dream (sogno) - possono benissimo trasfigurarsi, all'ascolto del disco, negli amori e nei sogni di tutti noi. Quasi come se in uno dei più suggestivi passaggi di consegne, potessimo una volta giunti alla tredicesima track di Working on a Dream impegnarci anima e corpo, da veri e propri messaggeri del verbo springsteeniano, a diffondere nel mondo la parola del Boss del New Jersey, profeta e cantore instancabile dei nostri tempi sbandati, ma a volte ricolmi di speranza. Senza però il bisogno di aspettare l'elezione di un nero alla carica di uomo più potente della terra, ma anche solo nell'attesa che il nostro cuore possa scaldarsi ancora una volta, in nome di quell'amore che a Bruce Springsteen piace tanto cantare.
Working on a Dream
1. Outlaw Pete
2. My Lucky Day
3. Working on a Dream
4. Queen Of The Supermarket
5. What Love Can Do
6. This Life
7. Good Eye
8. Tomorrow Never Knows
9. Life Itself
10.Kingdom Of Days
11. Surprise surprise
12.Tha Last Carnival
13. The Wrestler
martedì 24 febbraio 2009
Pensieri e Parole
"Era solo una splendida apparizione che mi aveva guardato negli occhi per due secondi e poi era svanita. Ero convinto che non l'avrei rivista mai più. Gli dèi si erano presi gioco di me, e la ragazza di cui ero destinato a innamorarmi, l'unica persona inviata su questa terra per dare un senso alla mia vita, mi era stata rubata e lanciata in un'altra dimensione - un luogo inaccessibile, dove non sarei mai potuto entrare".
''The Millionaire'' conquista l'America
Tutto come previsto. The Millionaire ha sbancato i botteghini della 81a edizione degli Oscar. Miglior film e miglior regista (premio all'inglese Danny Boyle): in totale ben otto riconoscimenti, tra sceneggiatura non originale, montaggio (davvero strepitoso), fotografia, colonna sonora, canzone originale e missaggio del suono. Un tripudio per il film che ha divertito e commosso le sale di tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti dove il successo è stato enorme.
La storia di un ragazzo povero di Bombay che riesce da solo, grazie alla forza della sua esperienza, a rispondere, domanda dopo domanda, a tutti i quesiti del gioco televisivo "Chi vuol essere milionario?", incarna alla perfezione il sogno d'amore che Hollywood ha celebrato in tanti anni di onorata carriera. E non è un caso che il film vincitore sia proprio ambientato in quell'India dove l'industria cinematografica di Bollywood sembra voler, pian piano, sostituirsi alla mecca del cinema di un tempo: Hollywood, appunto.
Sonora delusione, dunque, per i film americani rappresentati in primis da Il curioso caso di Benjamin Button di David Fincher (solo tre premi minori, a fronte di ben 13 nomination) e da Frost/Nixon di Ron Howard.
Tra gli attori sono stati premiati l'immenso Sean Penn per la sua toccante interpretazione di Harvey Milk, primo politico americano dichiaratamente omosessuale, nell'omonimo film di Gus Van Sant, e la sempre più brava Kate Winslet per il suo ruolo di ex guardia nazista nel film di Stephen Daldry The Reader. «Già a un anno sognavo questo momento, ma al posto della statuetta tenevo in mano uno shampoo ed è allora che ho preparato il mio discorso di ringraziamento», ha detto emozionata l'attrice inglese.
Premio come miglior attrice non protagonista è andato invece alla spagnola Penelope Cruz, per il suo ruolo nella frizzante commedia Vicky Cristina Barcellona dell'instancabile Woody Allen. Grande commozione in sala quando è stato annunciato il premio per il miglior attore non protagonista, assegnato al compianto interprete Heath Ledger per la scioccante interpretazione di Joker nel film campione d'incassi Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan: tutta la sua famiglia è salita sul palco per ricevere il riconoscimento postumo all'artista scomparso ormai più di un anno fa.
Nessuna sorpresa neanche per il miglior film d'animazione, andato quest'anno al tenero robot Wall-E della Pixar, mentre come miglior film straniero ha vinto la pellicola giapponese Departures, sbaragliando così l'agguerrita concorrenza del francese "La classe" (Palma d'oro a Cannes) e dell'israeliano "Valzer con Bashir" (vincitore ai Golden Globe).
Da ricordare, infine, il meritato premio come miglior documentario a Man on Wire, film che ha girato il mondo tra un festival e l'altro (compreso lo scorso Festival Internazionale del Film di Roma) e che sembra essere, alla fine della serata, l'unica "concessione" dell'Academy ai cinefili che forse avrebbero premiato ben altre pellicole. Ma ormai è risaputo, ogni anno è la stessa storia, e non è mai possibile accontentare tutti gli appassionati della Settima Arte. Non è poi questo il vero fascino della serata degli Oscar?
La storia di un ragazzo povero di Bombay che riesce da solo, grazie alla forza della sua esperienza, a rispondere, domanda dopo domanda, a tutti i quesiti del gioco televisivo "Chi vuol essere milionario?", incarna alla perfezione il sogno d'amore che Hollywood ha celebrato in tanti anni di onorata carriera. E non è un caso che il film vincitore sia proprio ambientato in quell'India dove l'industria cinematografica di Bollywood sembra voler, pian piano, sostituirsi alla mecca del cinema di un tempo: Hollywood, appunto.
Sonora delusione, dunque, per i film americani rappresentati in primis da Il curioso caso di Benjamin Button di David Fincher (solo tre premi minori, a fronte di ben 13 nomination) e da Frost/Nixon di Ron Howard.
Tra gli attori sono stati premiati l'immenso Sean Penn per la sua toccante interpretazione di Harvey Milk, primo politico americano dichiaratamente omosessuale, nell'omonimo film di Gus Van Sant, e la sempre più brava Kate Winslet per il suo ruolo di ex guardia nazista nel film di Stephen Daldry The Reader. «Già a un anno sognavo questo momento, ma al posto della statuetta tenevo in mano uno shampoo ed è allora che ho preparato il mio discorso di ringraziamento», ha detto emozionata l'attrice inglese.
Premio come miglior attrice non protagonista è andato invece alla spagnola Penelope Cruz, per il suo ruolo nella frizzante commedia Vicky Cristina Barcellona dell'instancabile Woody Allen. Grande commozione in sala quando è stato annunciato il premio per il miglior attore non protagonista, assegnato al compianto interprete Heath Ledger per la scioccante interpretazione di Joker nel film campione d'incassi Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan: tutta la sua famiglia è salita sul palco per ricevere il riconoscimento postumo all'artista scomparso ormai più di un anno fa.
Nessuna sorpresa neanche per il miglior film d'animazione, andato quest'anno al tenero robot Wall-E della Pixar, mentre come miglior film straniero ha vinto la pellicola giapponese Departures, sbaragliando così l'agguerrita concorrenza del francese "La classe" (Palma d'oro a Cannes) e dell'israeliano "Valzer con Bashir" (vincitore ai Golden Globe).
Da ricordare, infine, il meritato premio come miglior documentario a Man on Wire, film che ha girato il mondo tra un festival e l'altro (compreso lo scorso Festival Internazionale del Film di Roma) e che sembra essere, alla fine della serata, l'unica "concessione" dell'Academy ai cinefili che forse avrebbero premiato ben altre pellicole. Ma ormai è risaputo, ogni anno è la stessa storia, e non è mai possibile accontentare tutti gli appassionati della Settima Arte. Non è poi questo il vero fascino della serata degli Oscar?
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The Reader
Michael Berg (Ralph Fiennes) è un uomo solo. Lo vediamo ormai cresciuto, ma come bloccato da pensieri e ricordi che non smettono di tormentarlo. Ricordi in particolare di un’estate negli anni ’50, quando aveva appena 15 anni e tutta una vita davanti. Ora sappiamo però che quella vita è in gran parte trascorsa, e negli occhi di Michael non sembra brillare la gioia di averla vissuta. Michael è il lettore del titolo, protagonista da adolescente e da adulto dell’ultimo, intenso film di Stephen Daldry, intitolato appunto The Reader – A voce alta, tratto dall’omonimo romanzo di Bernhard Schlink.
Michael è un giovane liceale tedesco, che un giorno, dopo essersi sentito male per strada, viene soccorso da Hanna Schmitz (un’intensa Kate Winslet), trentenne addetta al controllo dei biglietti sugli autobus. Tra i due si instaura da subito una sorta di complicità morbosa, due anime e due corpi alla ricerca di qualcuno con cui sfogare le proprie frustrazioni. Quando dopo qualche mese Michael rincontrerà (di proposito) Hannah, tra i due l’unica forma di comunicazione sarà quella del sesso, attraverso il quale quei due corpi potranno congiungersi in un unico, prepotente atto d’amore. Ma è un amore particolare quello che pian piano farà avvicinare le loro due anime desiderose di colmare il vuoto che sentono dentro.
Due solitudini pronte a sciogliersi l’uno nell’altra, in un rapporto simbiotico dove ciascuno ha qualcosa da donare. Hannah, il suo corpo maturo ad un giovane che verrà così iniziato alle gioie del sesso; Michael, la passione per i libri da leggere a voce alta alla sua amata. Perché in realtà lei è analfabeta, non sa né leggere né scrivere ma è avida di storie da ascoltare. Le storie che tanto amorevolmente Michael, ignaro dell’incapacità letteraria di Hannah, ogni giorno le legge: dall’Odissea a L’amante di Lady Chatterley fino a Guerra e pace di Tolstoj. Ma quell’indimenticabile estate di amore e passione ben presto finisce, quando da un momento all’altro Hannah scompare senza lasciare traccia.
Gli anni passano, Michael cresce e inizia a frequentare la facoltà di legge, fino a quando ritroverà l’amore di una vita in una fredda aula di tribunale. Si scopre così che Hannah è imputata, insieme ad altre donne, in un processo contro criminali del Terzo Reich. Lei è infatti accusata di aver lavorato, durante la guerra, come guardia nazista e di aver provocato la morte di centinaia di vittime innocenti. Michael è incredulo: da qui parte la riflessione del regista su cosa voglia dire, per un paese come la Germania, fare giustizia per lavarsi la coscienza e cancellare i peccati di un passato scomodo che sembra non offuscarsi a distanza ancora di anni.
Un passato che poi alla fine irrompe nel presente scardinando le certezze più ferree, comprese quelle di Michael. Lo spettatore viene in questo modo catapultato nel vortice di incertezza che attanaglierà da allora in avanti il giovane studente di legge, colpevole di aver nascosto – quando non ci voleva – il suo amore di quell’estate insieme ad Hannah. Un’avventura che ci mostra delicatamente quanto sia insopprimibile la necessità dell’uomo di perdersi in altre storie, e poi partire da quelle per meglio capire la propria storia.
Michael è un giovane liceale tedesco, che un giorno, dopo essersi sentito male per strada, viene soccorso da Hanna Schmitz (un’intensa Kate Winslet), trentenne addetta al controllo dei biglietti sugli autobus. Tra i due si instaura da subito una sorta di complicità morbosa, due anime e due corpi alla ricerca di qualcuno con cui sfogare le proprie frustrazioni. Quando dopo qualche mese Michael rincontrerà (di proposito) Hannah, tra i due l’unica forma di comunicazione sarà quella del sesso, attraverso il quale quei due corpi potranno congiungersi in un unico, prepotente atto d’amore. Ma è un amore particolare quello che pian piano farà avvicinare le loro due anime desiderose di colmare il vuoto che sentono dentro.
Due solitudini pronte a sciogliersi l’uno nell’altra, in un rapporto simbiotico dove ciascuno ha qualcosa da donare. Hannah, il suo corpo maturo ad un giovane che verrà così iniziato alle gioie del sesso; Michael, la passione per i libri da leggere a voce alta alla sua amata. Perché in realtà lei è analfabeta, non sa né leggere né scrivere ma è avida di storie da ascoltare. Le storie che tanto amorevolmente Michael, ignaro dell’incapacità letteraria di Hannah, ogni giorno le legge: dall’Odissea a L’amante di Lady Chatterley fino a Guerra e pace di Tolstoj. Ma quell’indimenticabile estate di amore e passione ben presto finisce, quando da un momento all’altro Hannah scompare senza lasciare traccia.
Gli anni passano, Michael cresce e inizia a frequentare la facoltà di legge, fino a quando ritroverà l’amore di una vita in una fredda aula di tribunale. Si scopre così che Hannah è imputata, insieme ad altre donne, in un processo contro criminali del Terzo Reich. Lei è infatti accusata di aver lavorato, durante la guerra, come guardia nazista e di aver provocato la morte di centinaia di vittime innocenti. Michael è incredulo: da qui parte la riflessione del regista su cosa voglia dire, per un paese come la Germania, fare giustizia per lavarsi la coscienza e cancellare i peccati di un passato scomodo che sembra non offuscarsi a distanza ancora di anni.
Un passato che poi alla fine irrompe nel presente scardinando le certezze più ferree, comprese quelle di Michael. Lo spettatore viene in questo modo catapultato nel vortice di incertezza che attanaglierà da allora in avanti il giovane studente di legge, colpevole di aver nascosto – quando non ci voleva – il suo amore di quell’estate insieme ad Hannah. Un’avventura che ci mostra delicatamente quanto sia insopprimibile la necessità dell’uomo di perdersi in altre storie, e poi partire da quelle per meglio capire la propria storia.
L'Onda di ieri che ci travolge
Autunno 1967. Ron Jones, professore di storia di un liceo americano - il Cubberley High School di Palo Alto, in California - decide di fare un esperimento insieme ai suoi allievi. Sta spiegando loro cos'è stato il nazionalsocialismo. «Come hanno potuto, i tedeschi, sostenere di essere stati all'oscuro del massacro degli ebrei? Come hanno potuto, cittadini, ferrovieri, insegnanti, medici sostenere di non avere saputo dei campi di concentramento e dei forni crematori? Come hanno potuto, i vicini di casa e forse anche gli amici dei cittadini ebrei, sostenere di non essere stati lì, mentre tutto questo accadeva?». È la domanda che uno dei suoi alunni gli rivolge, e alla quale il professor Jones non sa rispondere.
Proprio da questo interrogativo nascerà l'esperimento de La terza onda. Istituendo in classe un regime di disciplina ferrea e obbedienza al leader, limitando la libertà degli studenti e riunendoli così in un gruppo fin troppo conformista, il professore cercherà di spiegare loro come funziona un governo totalitario. L'esperimento doveva durare solo un giorno, ma ben presto si estende a tutta la scuola con conseguenze inaspettate: i membri de La terza onda cominciano a spiarsi a vicenda, e gli studenti che si rifiutano di aderire vengono addirittura picchiati. Al quinto giorno, Ron Jones sarà costretto a sospendere l'iniziativa.
Questa è cronaca, fa parte della Storia, fatti e personaggi sono realmente esistiti. Da ciò ha preso spunto lo scrittore Morton Rhue per il suo libro Die Welle (L'Onda), un classico della letteratura per ragazzi e lettura obbligatoria in molte scuole tedesche. Opera di fantasia, sì, ma ispirata proprio all'esperimento del professor Jones nel 1967 in California. E da questo libro, a sua volta, è partito il regista tedesco Dennis Gansel per girare il film L'Onda, che uscirà nelle nostre sale il prossimo 27 febbraio.
Unica differenza: qui la storia è ambientata in Germania, non negli Stati Uniti. Ma il professor Rainer Wenger (Jürgen Vogel), anche lui, come Ron Jones, darà vita a un movimento che ben presto gli sfuggirà di mano senza riuscire a porvi rimedio. Sarà troppo tardi quando ci si accorgerà dell'onda che travolge tutto e tutti. «Non ho mai smesso di farmi questa domanda: potrebbe ancora accaderci una cosa del genere? Nella Germania di oggi, così democratica e illuminata, in cui dedichiamo tanto tempo a parlare di Nazismo e Terzo Reich? Ci cascheremmo ancora? È una domanda così intrigante, che ho voluto tentare di trovare una risposta», racconta Dennis Gansel a proposito del film.
Domande pesanti come macigni, queste del regista tedesco, che il film L'Onda di certo non mancherà di porre nel modo più violento possibile agli spettatori. Parola di Ron Jones, che sul set in Germania, nell'agosto 2007, si è sentito trasportato quaranta anni indietro nel tempo, all'anno 1967: «Essere qui sul set e guardare gli attori, era come avere di fronte fantasmi del mio passato». I fantasmi di un totalitarismo - si parli di nazismo, fascismo o comunismo - che fanno ancora paura ad un'Europa segnata a fuoco da quelle deliranti ideologie del passato.
E la domanda nasce spontanea, allora: come è potuto accadere una cosa del genere in una scuola di giovani studenti? Secondo Ron Jones, «L'esperimento ha funzionato perché molti di quei ragazzi - molti di noi, anche - erano smarriti, non avevano una famiglia, non avevano una comunità, non avevano un senso di appartenenza. E a un certo punto è arrivato un insegnante a dirgli: "Io posso darvi tutto questo"». A quale prezzo però?
Proprio da questo interrogativo nascerà l'esperimento de La terza onda. Istituendo in classe un regime di disciplina ferrea e obbedienza al leader, limitando la libertà degli studenti e riunendoli così in un gruppo fin troppo conformista, il professore cercherà di spiegare loro come funziona un governo totalitario. L'esperimento doveva durare solo un giorno, ma ben presto si estende a tutta la scuola con conseguenze inaspettate: i membri de La terza onda cominciano a spiarsi a vicenda, e gli studenti che si rifiutano di aderire vengono addirittura picchiati. Al quinto giorno, Ron Jones sarà costretto a sospendere l'iniziativa.
Questa è cronaca, fa parte della Storia, fatti e personaggi sono realmente esistiti. Da ciò ha preso spunto lo scrittore Morton Rhue per il suo libro Die Welle (L'Onda), un classico della letteratura per ragazzi e lettura obbligatoria in molte scuole tedesche. Opera di fantasia, sì, ma ispirata proprio all'esperimento del professor Jones nel 1967 in California. E da questo libro, a sua volta, è partito il regista tedesco Dennis Gansel per girare il film L'Onda, che uscirà nelle nostre sale il prossimo 27 febbraio.
Unica differenza: qui la storia è ambientata in Germania, non negli Stati Uniti. Ma il professor Rainer Wenger (Jürgen Vogel), anche lui, come Ron Jones, darà vita a un movimento che ben presto gli sfuggirà di mano senza riuscire a porvi rimedio. Sarà troppo tardi quando ci si accorgerà dell'onda che travolge tutto e tutti. «Non ho mai smesso di farmi questa domanda: potrebbe ancora accaderci una cosa del genere? Nella Germania di oggi, così democratica e illuminata, in cui dedichiamo tanto tempo a parlare di Nazismo e Terzo Reich? Ci cascheremmo ancora? È una domanda così intrigante, che ho voluto tentare di trovare una risposta», racconta Dennis Gansel a proposito del film.
Domande pesanti come macigni, queste del regista tedesco, che il film L'Onda di certo non mancherà di porre nel modo più violento possibile agli spettatori. Parola di Ron Jones, che sul set in Germania, nell'agosto 2007, si è sentito trasportato quaranta anni indietro nel tempo, all'anno 1967: «Essere qui sul set e guardare gli attori, era come avere di fronte fantasmi del mio passato». I fantasmi di un totalitarismo - si parli di nazismo, fascismo o comunismo - che fanno ancora paura ad un'Europa segnata a fuoco da quelle deliranti ideologie del passato.
E la domanda nasce spontanea, allora: come è potuto accadere una cosa del genere in una scuola di giovani studenti? Secondo Ron Jones, «L'esperimento ha funzionato perché molti di quei ragazzi - molti di noi, anche - erano smarriti, non avevano una famiglia, non avevano una comunità, non avevano un senso di appartenenza. E a un certo punto è arrivato un insegnante a dirgli: "Io posso darvi tutto questo"». A quale prezzo però?
L'Onda
Regia Dennis Gansel
Sceneggiatura Dennis Gansel, Peter Thorwarth
Produzione Rat Pack Filmproduktion
Distribuzione BIM Distribuzione
Paese Germania
Uscita Cinema 27 febbraio 2009
Genere Drammatico
Durata 101'
A passo di valzer tra le macerie della guerra
Le immagini in movimento sullo schermo riescono a volte ad essere più vere della realtà che cercano di rappresentare. Non tanto perché ti riportano agli occhi sensazioni visive il più possibile vicine alla verità, bensì per la loro intrinseca capacità di farci afferrare il senso profondo dietro le storie che quelle immagini volevano raccontarci. E' proprio quello che accade durante (e dopo) la visione del film (a metà tra documentario e cartone animato) Valzer con Bashir, diretto da Ari Folman.
La pellicola è, senza ombra di dubbio, un capolavoro. Il regista non ha paura di esporre alla luce del sole i suoi sentimenti di soldato semplice, che nel 1982 partecipò, in forze all'esercito israeliano, alla guerra in Libano. E la storia parte proprio da un incubo di un amico di Folman, che gli racconta di avere strani sogni sul loro periodo trascorso in guerra. Da quelle immagini iniziali parte così un viaggio del protagonista-regista nella sua memoria, nei meandri dei ricordi del conflitto in Libano.
Anche lui comincerà ben presto ad avere un incubo ricorrente, a ricordargli in modo misterioso e atroce qualcosa che forse ha voluto (non si sa quanto consapevolmente) rimuovere. Ari Folman deciderà così di andare a trovare diversi compagni d'armi per raccontar loro questo suo inspiegabile sogno: lui che, immerso nelle acque del mare, vede risplendere, nell'oscurità della notte libanese, dei fuochi nel cielo di Beirut. Quale significato nasconderanno quelle immagini? Folman lo scoprirà (insieme allo spettatore) anche grazie alle testimonianze degli altri suoi compagni, ognuno dei quali si porta dentro una ferita ancora aperta di quella maledetta guerra. In particolare, del massacro ai campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Qui, secondo la ricostruzione del regista, le milizie cristiane avrebbero pianificato e attuato un piano per eliminare uomini, donne e bambini - come rappresaglia all'omicidio del loro leader Bashir Gemayel - con gli israeliani a fare da spettatori imbelli alla carneficina.
Il senso di colpa e la necessità di non tradire mai gli insegnamenti della memoria, e quindi del proprio passato vissuto nel bene e nel male, diviene il fulcro di uno splendido animated documentary, dove la linea d'ombra tra realtà e finzione appare come qualcosa di irrimediabilmente intangibile. Solo la tensione verso una verità in qualche modo consolatoria (perché ineludibile) potrà permettere al protagonista di squarciare il velo di menzogna che ha oscurato per troppo tempo la sua (e nostra) visione chiara delle cose. E solo allora, attraverso la mirabile mediazione di un cartone animato (crediamo da Oscar), sarà possibile rituffarsi nella realtà di tutti i giorni, nella consapevolezza di averci provato a carpirne il senso più profondo e ambiguo. Ancora una volta grazie alla forza immaginifica del cinema.
La pellicola è, senza ombra di dubbio, un capolavoro. Il regista non ha paura di esporre alla luce del sole i suoi sentimenti di soldato semplice, che nel 1982 partecipò, in forze all'esercito israeliano, alla guerra in Libano. E la storia parte proprio da un incubo di un amico di Folman, che gli racconta di avere strani sogni sul loro periodo trascorso in guerra. Da quelle immagini iniziali parte così un viaggio del protagonista-regista nella sua memoria, nei meandri dei ricordi del conflitto in Libano.
Anche lui comincerà ben presto ad avere un incubo ricorrente, a ricordargli in modo misterioso e atroce qualcosa che forse ha voluto (non si sa quanto consapevolmente) rimuovere. Ari Folman deciderà così di andare a trovare diversi compagni d'armi per raccontar loro questo suo inspiegabile sogno: lui che, immerso nelle acque del mare, vede risplendere, nell'oscurità della notte libanese, dei fuochi nel cielo di Beirut. Quale significato nasconderanno quelle immagini? Folman lo scoprirà (insieme allo spettatore) anche grazie alle testimonianze degli altri suoi compagni, ognuno dei quali si porta dentro una ferita ancora aperta di quella maledetta guerra. In particolare, del massacro ai campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Qui, secondo la ricostruzione del regista, le milizie cristiane avrebbero pianificato e attuato un piano per eliminare uomini, donne e bambini - come rappresaglia all'omicidio del loro leader Bashir Gemayel - con gli israeliani a fare da spettatori imbelli alla carneficina.
Il senso di colpa e la necessità di non tradire mai gli insegnamenti della memoria, e quindi del proprio passato vissuto nel bene e nel male, diviene il fulcro di uno splendido animated documentary, dove la linea d'ombra tra realtà e finzione appare come qualcosa di irrimediabilmente intangibile. Solo la tensione verso una verità in qualche modo consolatoria (perché ineludibile) potrà permettere al protagonista di squarciare il velo di menzogna che ha oscurato per troppo tempo la sua (e nostra) visione chiara delle cose. E solo allora, attraverso la mirabile mediazione di un cartone animato (crediamo da Oscar), sarà possibile rituffarsi nella realtà di tutti i giorni, nella consapevolezza di averci provato a carpirne il senso più profondo e ambiguo. Ancora una volta grazie alla forza immaginifica del cinema.
Valzer con Bashir
Regia Ari Folman
Sceneggiatura Ari Folman
Produzione Bridgit Folman Film Gang
Distribuzione Lucky Red
Paese Israele, Germania, Francia
Uscita Cinema 9 gennaio 2009
Genere Animazione
Durata 87'
Italians - Il giro del mondo in 80 pizze
Viaggiare per capire, capire per raccontare. Parola di Beppe Severgnini, autore del libro Italians - Il giro del mondo in 80 pizze, pubblicato da Rizzoli in occasione dei dieci anni di vita dell'omonimo forum apparso per la prima volta su Internet giovedì 3 dicembre 1998. Qual è la formula vincente?. "In ogni angolo del mondo", scrive orgoglioso Severgnini, "gli Italians mi aspettano, mi guidano, mi consigliano e mi riprendono". Così il "vedere per provare a capire" e il "capire per cercare di raccontare" diventano, per il giornalista giramondo del Corriere della Sera, più facili ma anche più stimolanti.
"Ogni giorno ci ritroviamo in rete, sarà bello incontrarsi di persona": tanto "le email possono ingannare, le facce no". Il tutto, come da tradizione ormai consolidata dal lontano 18 ottobre 1999 a Londra, davanti a una bella pizza. Semplice, economica e gustosa. E per meglio "mettere facce di fianco ai nomi, immagini sopra le date, fatti davanti alle polemiche", il viaggio diventa il mezzo indispensabile per poter condividere, non più solo attraverso la mediazione virtuale di un forum sul web, le proprie esperienze di Italians in fuga da un'Italia che spesso sembra dimenticarsi dei suoi "nomadi" migliori. Ecco, dunque, gli ingredienti principali per riuscire a raccontare al meglio le storie di coloro che hanno deciso di varcare i confini nazionali: pizza, esperienze personali e la presenza gradita di un amico giornalista pronto a scriverne.
Ma cosa fanno questi Italians in giro per il mondo grazie al forum? "Scrivono, raccontano, spiegano, domandano, discutono, protestano (parecchio). Ma, soprattutto, confrontano", dice nel libro Beppe Severgnini, aggiungendo anche che "amano misurarsi col mondo, per imparare e migliorare; quello che troppi italiani in Italia non vogliono più fare, per pigrizia o per paura". E perché partono? Soprattutto per ostinazione. Scrive Severgnini: "Non è facile imparare l'inglese, la lingua del mondo (il cinese, ancora meno); e non è semplice chiudere una Samsonite, una mattina all'alba, e lasciarsi l'Italia alle spalle per qualche mese o qualche anno. Ma chi ha trovato quel coraggio, quasi sempre, è stato premiato". Di rimpianti ce ne saranno tanti, è vero: per esempio "l'intuizione, la capacità d'improvvisazione, l'imprevedibilità" made in Italy, suggerisce Severgnini, ma a lungo andare "nella vita quotidiana tutto questo diventa stancante". Soprattutto quando non va di pari passo con la tanto celebrata (a parole) meritocrazia.
Ma alla fine dei conti chi ha davvero voglia di mettersi in gioco? Di certo gli Italians che hanno mollato gli ormeggi per altri lidi, in Europa e nel mondo, stanchi di un paese troppo intento a guardarsi indietro. "Le nazioni che procedono con gli occhi nel retrovisore", ammonisce Severgnini, "non vanno da nessuna parte. Oppure sbattono, che è peggio". Forse l'Italia non ha ancora fatto il botto, ma quanto tempo ci vorrà prima di farlo? Nel frattempo, la lettura di questo frizzante libro aiuterà a farsi una piccola idea della pasta di cui è fatta l'"Italia reale, quella di cui i politici parlano tanto, forse perché la frequentano poco". Quell'Italia patria di italiani che nonostante il rimpianto, la rabbia e il rammarico, non smettono di viaggiare per capire e raccontare il posto in cui vivono. Da autentici cittadini del mondo.
"Ogni giorno ci ritroviamo in rete, sarà bello incontrarsi di persona": tanto "le email possono ingannare, le facce no". Il tutto, come da tradizione ormai consolidata dal lontano 18 ottobre 1999 a Londra, davanti a una bella pizza. Semplice, economica e gustosa. E per meglio "mettere facce di fianco ai nomi, immagini sopra le date, fatti davanti alle polemiche", il viaggio diventa il mezzo indispensabile per poter condividere, non più solo attraverso la mediazione virtuale di un forum sul web, le proprie esperienze di Italians in fuga da un'Italia che spesso sembra dimenticarsi dei suoi "nomadi" migliori. Ecco, dunque, gli ingredienti principali per riuscire a raccontare al meglio le storie di coloro che hanno deciso di varcare i confini nazionali: pizza, esperienze personali e la presenza gradita di un amico giornalista pronto a scriverne.
Ma cosa fanno questi Italians in giro per il mondo grazie al forum? "Scrivono, raccontano, spiegano, domandano, discutono, protestano (parecchio). Ma, soprattutto, confrontano", dice nel libro Beppe Severgnini, aggiungendo anche che "amano misurarsi col mondo, per imparare e migliorare; quello che troppi italiani in Italia non vogliono più fare, per pigrizia o per paura". E perché partono? Soprattutto per ostinazione. Scrive Severgnini: "Non è facile imparare l'inglese, la lingua del mondo (il cinese, ancora meno); e non è semplice chiudere una Samsonite, una mattina all'alba, e lasciarsi l'Italia alle spalle per qualche mese o qualche anno. Ma chi ha trovato quel coraggio, quasi sempre, è stato premiato". Di rimpianti ce ne saranno tanti, è vero: per esempio "l'intuizione, la capacità d'improvvisazione, l'imprevedibilità" made in Italy, suggerisce Severgnini, ma a lungo andare "nella vita quotidiana tutto questo diventa stancante". Soprattutto quando non va di pari passo con la tanto celebrata (a parole) meritocrazia.
Ma alla fine dei conti chi ha davvero voglia di mettersi in gioco? Di certo gli Italians che hanno mollato gli ormeggi per altri lidi, in Europa e nel mondo, stanchi di un paese troppo intento a guardarsi indietro. "Le nazioni che procedono con gli occhi nel retrovisore", ammonisce Severgnini, "non vanno da nessuna parte. Oppure sbattono, che è peggio". Forse l'Italia non ha ancora fatto il botto, ma quanto tempo ci vorrà prima di farlo? Nel frattempo, la lettura di questo frizzante libro aiuterà a farsi una piccola idea della pasta di cui è fatta l'"Italia reale, quella di cui i politici parlano tanto, forse perché la frequentano poco". Quell'Italia patria di italiani che nonostante il rimpianto, la rabbia e il rammarico, non smettono di viaggiare per capire e raccontare il posto in cui vivono. Da autentici cittadini del mondo.
Titolo: Italians - Il giro del mondo in 80 pizze
Autore: Beppe Severgnini
Editore: Rizzoli
Anno: 2008
venerdì 6 febbraio 2009
Karl Marx docet?
I proprietari del capitale stimoleranno la classe lavoratrice a comprare sempre più beni costosi, case e tecnologia, spingendoli a prendere sempre più denaro a credito, fino a che il debito diventerà insostenibile. Il debito inevaso condurrà alla bancarotta delle banche, che dovranno essere nazionalizzate, e lo Stato sarà allora costretto a prendere la strada che porterà eventualmente al Comunismo.
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