lunedì 31 gennaio 2011

Italia, non un Paese per giovani?

Il titolo e il sottotitolo del bel libro di Marco Iezzi e Tonia Mastrobuoni edito da Editori Laterza ci dice (quasi) tutto sullo stato della gioventù italiana di inizio millennio. Gioventù sprecata - Perché in Italia si fatica a diventare grandi ci spiega per filo e per segno, soprattutto grazie a statistiche puntuali, come stiamo gettando al vento il futuro di giovani di belle speranze sempre più impantanati in un presente fatto di frustrazioni sia all'università che sul (primo) posto di lavoro.

Come dice il professore ordinario di diritto del lavoro Michel Martone, "un ragazzo a 23 anni raggiunge il massimo della sua intelligenza, poi inizia a bruciare neuroni. Se a quell'età gli fai fare le fotocopie o lo lasci pascolare dentro l'università bruci tutto il suo potenziale". Luca Santarelli, capo della ricerca clinica alla Roche di Basilea, fa l'esempio degli Stati Uniti dove "chi resta a casa dopo i 18 anni è considerato un menomato mentale, e anche chi ha un'azienda di famiglia di solito se ne va al college perché non c'è niente di meglio che venire a contatto con altre persone, vivere lontano da casa, fare nuove esperienze e tornare poi nell'azienda di famiglia, arricchiti".

Così il nostro Paese si allontana sempre più da altre nazioni che puntano tutto sull'istruzione dei loro giovani, mentre da noi a fare le riforme dell'università è spesso il ministro dell'economia di turno con i suoi soliti tagli ai già esigui finanziamenti. Il 10% degli studenti in Germania ha accesso ad appartamenti messi a disposizione dalle università, in Svezia è il 17%, in Francia il 7%. Nel nostro paese solo uno studente su cinquanta vive in una residenza universitaria. Quanto alle borse di studio o ai prestiti agevolati, l'80% degli studenti italiani non riesce ad avere né le une né gli altri, contro il 4% degli olandesi e il 17% degli americani. Succede così - evidenzia l'economista Roberto Perotti - che "l'università italiana è frequentata in prevalenza dai ricchi, che si vedono finanziati i propri studi gratuiti dalle tasse di tutti, compresi i più poveri".

Un altro problema endemico del nostro Paese, ha rilevato la Commissione Europea con uno studio sulla flexicurity, è il livello di sicurezza sociale molto basso e il livello di flessibilità medio alto. Come scrivono Tito Boeri e Pietro Garibaldi nel libro Un nuovo contratto per tutti, "la flessibilità rischia di degenerare in precariato quando il passaggio da un lavoro all'altro, o meglio, da un contratto a tempo determinato a un altro, non è il risultato di una scelta personale che ha l'obiettivo di migliorarsi, di crescere professionalmente, di guadagnare di più, ma quando è invece un obbligo indotto da un mercato del lavoro rigido".
Accade così, soprattutto in Italia a corto di adeguati ammortizzatori sociali, che la maggior parte dei giovani - in cerca del primo impiego o di passaggio da un contratto all'altro - non percepisce alcun aiuto da parte dello Stato, a differenza del lavoratore a tempo indeterminato tutelato invece dalla liquidazione e dall'assegno di disoccupazione o dalla cassa integrazione. Non è più accettabile - scrivono Iezzi e Tornabuoni - che "a parità di mansioni il collaboratore parasubordinato e il lavoratore a termine guadagnano meno di quello assunto a tempo indeterminato".
In una bellissima scena dell'ultimo film di David Fincher, The Social Network, il presidente di Harvard Larry Summers dice a due suoi studenti: "Qui i laureati pensano che sia meglio inventarsi un lavoro che trovarne uno". Parole sante: peccato che in Italia, come evidenzia nel libro il presidente dei giovani di Confcommercio Paolo Galimberti, "le banche preferiscono finanziare le garanzie, non le idee". Paese che vai, usanze che trovi.

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