di Paolo Massa
Nel bel libro di Mordecai Richler La versione di Barney, ultimo della sua vita da scrittore, c'è una citazione di Samuel Johnson che al reverendo Thomas Wharton scrisse: "Il fatto è che la morte non ascolta le nostre suppliche, né tiene in alcun conto le scadenze dei mortali". E chi c'è di più mortale di Barney Panofsky, protagonista indiscusso del romanzo dello scrittore canadese originario di Montreal?
Ora quello stesso Barney è appena sbarcato sugli schermi cinematografici italiani interpretato da un irresistibile (e da Oscar) Paul Giamatti, vera colonna portante della pellicola diretta da Richard J. Lewis. La sfida non era delle più facili, ossia portare al cinema uno degli autori più osannati dai fan in giro per il mondo e soprattutto uno dei loro antieroi per eccellenza, quel Barney produttore di film completamente inutili (Totally Unnecessary Productions, così si chiama la sua fantomatica casa di produzione), affascinante al punto da convolare a nozze per ben tre volte. Vedere perciò un attore del calibro di Paul Giamatti, di certo non il più bello su piazza, fa anche piacere e incoraggia i più sfortunati in quanto a fascino a sperare di essere almeno un pizzico fortunati in amore come il nostro Barney Panofsky.
Ci vorrebbe, però, la stessa dose di spregiudicatezza che il grottesco Don Giovanni nato dalla penna di Richler sprizza da ogni poro della sua pelle, e che il bravissimo Paul Giamatti riesce a rendere dalla prima all'ultima scena nonostante qualche caduta di stile del film. Sin dall'inizio si nota, infatti, che il regista ha voluto seguire per filo e per segno la trama così come articolata dallo scrittore canadese, quasi per paura di scontentate l'ampio pubblico di lettori e assumendo a tratti un piglio didascalico al fine di raccontare la storiella nient'altro che la storiella. A perderci è soprattutto la sottotrama che vede coinvolto il protagonista nella misteriosa scomparsa del suo migliore amico Boogie: l'avrà mica ucciso Barney, si chiedono tutti, famiglia compresa? A differenza del libro, invece di ambientare la parabola europea di Barney a Parigi, l'azione si sposta nella più mondana Roma (per mere questioni produttive: leggi alla voce Fandango).
La prima metà del film, almeno fino al (terzo) matrimonio di Panofsky con Miriam (la donna che lo farà diventare anche padre), è davvero spassosa: imperdibili i duetti con il padre, interpretato da un bravo Dustin Hoffman. A lungo andare, però, sembra prendere il sopravvento un eccessivo tasso di romanticismo che fa perdere alla figura di Barney quella sfacciataggine che l'aveva contraddistinto, nel bene e nel male, sin dall'inizio del racconto. Resta però impresso negli occhi dello spettatore quel sorriso sbarazzino di un uomo fragile, sregolato, donnaiolo, bambino, fumatore incallito e alcolizzato instancabile nonostante la malattia che avanza e la morte che chiede il conto alla vita, una vita superba di un antieroe dalle sembianze umane, troppo umane.
Voto ***
Ora quello stesso Barney è appena sbarcato sugli schermi cinematografici italiani interpretato da un irresistibile (e da Oscar) Paul Giamatti, vera colonna portante della pellicola diretta da Richard J. Lewis. La sfida non era delle più facili, ossia portare al cinema uno degli autori più osannati dai fan in giro per il mondo e soprattutto uno dei loro antieroi per eccellenza, quel Barney produttore di film completamente inutili (Totally Unnecessary Productions, così si chiama la sua fantomatica casa di produzione), affascinante al punto da convolare a nozze per ben tre volte. Vedere perciò un attore del calibro di Paul Giamatti, di certo non il più bello su piazza, fa anche piacere e incoraggia i più sfortunati in quanto a fascino a sperare di essere almeno un pizzico fortunati in amore come il nostro Barney Panofsky.
Ci vorrebbe, però, la stessa dose di spregiudicatezza che il grottesco Don Giovanni nato dalla penna di Richler sprizza da ogni poro della sua pelle, e che il bravissimo Paul Giamatti riesce a rendere dalla prima all'ultima scena nonostante qualche caduta di stile del film. Sin dall'inizio si nota, infatti, che il regista ha voluto seguire per filo e per segno la trama così come articolata dallo scrittore canadese, quasi per paura di scontentate l'ampio pubblico di lettori e assumendo a tratti un piglio didascalico al fine di raccontare la storiella nient'altro che la storiella. A perderci è soprattutto la sottotrama che vede coinvolto il protagonista nella misteriosa scomparsa del suo migliore amico Boogie: l'avrà mica ucciso Barney, si chiedono tutti, famiglia compresa? A differenza del libro, invece di ambientare la parabola europea di Barney a Parigi, l'azione si sposta nella più mondana Roma (per mere questioni produttive: leggi alla voce Fandango).
La prima metà del film, almeno fino al (terzo) matrimonio di Panofsky con Miriam (la donna che lo farà diventare anche padre), è davvero spassosa: imperdibili i duetti con il padre, interpretato da un bravo Dustin Hoffman. A lungo andare, però, sembra prendere il sopravvento un eccessivo tasso di romanticismo che fa perdere alla figura di Barney quella sfacciataggine che l'aveva contraddistinto, nel bene e nel male, sin dall'inizio del racconto. Resta però impresso negli occhi dello spettatore quel sorriso sbarazzino di un uomo fragile, sregolato, donnaiolo, bambino, fumatore incallito e alcolizzato instancabile nonostante la malattia che avanza e la morte che chiede il conto alla vita, una vita superba di un antieroe dalle sembianze umane, troppo umane.
Voto ***
2 commenti:
Buona disamina.
Sebbene non abbia letto il romanzo da cui è tratto, mi sono innamorato di questa pellicola. Mi ha sorpreso positivamente, insomma.
Cineserialteam
Grazie per il commento: ti consiglio di leggere anche il libro, quando puoi! Ciao
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