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All'inizio di Vincere di Marco Bellocchio, film presentato in concorso all'ultimo Festival di Cannes, è puro cinema ad incantare gli occhi dello spettatore. Non si parla tanto nelle prime sequenze, ma sono le immagini, la splendida fotografia di Daniele Ciprì e la sontuosa colonna sonora a raccontarci l'incontro a Trento tra un giovane Benito Mussolini (Filippo Timi) - all'epoca ancora convinto socialista e anticlericale, nonché direttore del quotidiano "Avanti!" - e la sua prima (presunta) moglie Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno). Tra baci appassionati e accalorate scene di sesso, si consuma così la loro storia d'amore che all'alba della prima guerra mondiale finirà per sfiorire. Ma non per la cocciuta Ida Dalser, pronta a tutto pur di rivendicare il ruolo di moglie del Duce, e madre del primogenito Benito Albino, anche se storicamente mai nessun certificato di matrimonio confermerà la sua versione.
La pellicola di Bellocchio, criticata in patria e applauditissima a Cannes e sui giornali stranieri, coglie nel segno per il tema trattato, e il dibattito scatenatosi sta lì a dimostrarlo. Partendo dalla storia di una donna tanto innamorata quanto ossessiva e ossessionata dalla figura del "suo" Mussolini, Vincere riesce, almeno nella prima parte, a rappresentare con una certa originalità futurista (vedi le scritte impresse sullo schermo ad esaltare ancor di più l'effetto di rievocazione storica delle immagini di repertorio) il periodo raccontato a ridosso della prima e seconda guerra mondiale.
Il personaggio di un Mussolini ancora sconosciuto alle masse, ma già armato della sua influente retorica, interpretato molto bene da Filippo Timi, regge il confronto con le successive rappresentazioni del Duce attraverso filmati storici, quando nella seconda (e più debole) parte del film il regista si concentra solo sulla parabola declinante di Ida Dalser. E' qui che Vincere inizia a perdere colpi nello sviluppo della storia, troppo ripiegata su sé stessa a raccontarci la poco emozionante discesa della donna negli inferi della pazzia. In realtà pazza non è, ma nel continuare imperterrita a dichiarare a tutti la sua verità, quella di essere la prima moglie del Duce e madre del legittimo erede di Mussolini, suo figlio Benito Albino, finirà per essere rinchiusa in un manicomio dove concluderà tristemente i suoi giorni.
La figura di questa donna ostinata a combattere per i propri diritti, interpretata da una brava Giovanna Mezzogiorno, sembra quasi riassumere in sé quella voglia di non conformarsi al fascismo, che tutto e tutti voleva omologare, presente in parte della società italiana. A tratti sembra di intravedere in Ida Dalser, cinematograficamente parlando, l'Angelina Jolie di "Changeling", entrambe combattive più che mai in nome di un figlio perso e mai ritrovato. Peccato, però, che l'eccessiva ridondanza della seconda parte, quando Mussolini si rivedrà unicamente attraverso la mediazione degli intensi filmati di repertorio, impedisca di provare quel pathos capace di farci avvicinare emotivamente alla tragica vicenda di una donna persasi nei meandri della propria ossessione. Un po' come l'Italia del secondo dopoguerra, persa e distrutta per l'azzardo del Duce ossessionato anch'egli dai suoi assurdi sogni di gloria. A conferma del fatto che la realtà storica in bianco e nero, almeno in questo caso, resta più forte ed emozionante della finzione cinematografica.
La pellicola di Bellocchio, criticata in patria e applauditissima a Cannes e sui giornali stranieri, coglie nel segno per il tema trattato, e il dibattito scatenatosi sta lì a dimostrarlo. Partendo dalla storia di una donna tanto innamorata quanto ossessiva e ossessionata dalla figura del "suo" Mussolini, Vincere riesce, almeno nella prima parte, a rappresentare con una certa originalità futurista (vedi le scritte impresse sullo schermo ad esaltare ancor di più l'effetto di rievocazione storica delle immagini di repertorio) il periodo raccontato a ridosso della prima e seconda guerra mondiale.
Il personaggio di un Mussolini ancora sconosciuto alle masse, ma già armato della sua influente retorica, interpretato molto bene da Filippo Timi, regge il confronto con le successive rappresentazioni del Duce attraverso filmati storici, quando nella seconda (e più debole) parte del film il regista si concentra solo sulla parabola declinante di Ida Dalser. E' qui che Vincere inizia a perdere colpi nello sviluppo della storia, troppo ripiegata su sé stessa a raccontarci la poco emozionante discesa della donna negli inferi della pazzia. In realtà pazza non è, ma nel continuare imperterrita a dichiarare a tutti la sua verità, quella di essere la prima moglie del Duce e madre del legittimo erede di Mussolini, suo figlio Benito Albino, finirà per essere rinchiusa in un manicomio dove concluderà tristemente i suoi giorni.
La figura di questa donna ostinata a combattere per i propri diritti, interpretata da una brava Giovanna Mezzogiorno, sembra quasi riassumere in sé quella voglia di non conformarsi al fascismo, che tutto e tutti voleva omologare, presente in parte della società italiana. A tratti sembra di intravedere in Ida Dalser, cinematograficamente parlando, l'Angelina Jolie di "Changeling", entrambe combattive più che mai in nome di un figlio perso e mai ritrovato. Peccato, però, che l'eccessiva ridondanza della seconda parte, quando Mussolini si rivedrà unicamente attraverso la mediazione degli intensi filmati di repertorio, impedisca di provare quel pathos capace di farci avvicinare emotivamente alla tragica vicenda di una donna persasi nei meandri della propria ossessione. Un po' come l'Italia del secondo dopoguerra, persa e distrutta per l'azzardo del Duce ossessionato anch'egli dai suoi assurdi sogni di gloria. A conferma del fatto che la realtà storica in bianco e nero, almeno in questo caso, resta più forte ed emozionante della finzione cinematografica.
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