“Se si prende come riferimento la storia degli Stati Uniti”, ha scritto l’imprenditore americano James Mc Gregor nel libro “One Billion of Customers”, “è come se la Cina avesse vissuto nell’arco di soli quindici anni il capitalismo selvaggio dei grandi magnati della fine dell’Ottocento, la follia speculativa degli anni Venti, l’esodo rurale degli anni Trenta, l’emergere del ceto medio consumista degli anni Cinquanta e gli sconvolgimenti sociali e di costume dei nostri anni Sessanta”.
In soli quindici anni, dopo che Deng Xiaoping ha spianato la strada cinese all’economia di mercato. Una scelta che, ancora oggi, non smette di ripercuotersi sui ruggenti tassi di crescita della Cina. Basti pensare che nella classifica di “Business Week” delle 500 multinazionali più grandi del mondo, sono entrate 18 nuove imprese cinesi.
Per non parlare poi degli effetti positivi, in termini di benessere, che l’apertura al mercato globale ha avuto sulla popolazione. Scrive Federico Rampini ne “L’impero di Cindia” che la Cina “in pochi decenni ha traghettato dalla miseria al benessere 300 milioni di persone, mantenendo in mezzo a questa transizione epocale l’ordine e la stabilità”.
E proprio qui sta la sfida che l’Impero Cinese sta vincendo, malgrado i deboli richiami alla democrazia dei paesi occidentali. Una sfida volta ad equilibrare, ad uso e consumo del Partito comunista cinese, dirigismo in politica e liberismo in economia.
Non è un caso allora, scrive sempre Rampini, se “è più facile incontrare donne potenti ai vertici del neocapitalismo cinese, anziché ai posti di comando politici, perché nel mondo dell’economia il cambiamento è stato più rapido che dentro il Partito comunista”.
Ma per quanto ancora potrà durare questo paradosso made in China? Almeno fino a quando soprattutto i paesi più ricchi troveranno vantaggioso approfittare della manodopera cinese a basso costo.
Altrimenti perché il 60% delle esportazioni dalla Cina verrebbe fabbricato a nome di multinazionali statunitensi, giapponesi, tedesche, francesi, inglesi e italiane? “Una vera guerra mercantile contro la Cina” sottolinea Rampini “finirebbe per colpire anche loro”, ovvero le nostre multinazionali.
Ne è un esempio l’industria hi-tech della Silicon Valley, in California, che ha delocalizzato le sue fabbriche proprio in Cina. D’altra parte, come ci ricorda Federico Rampini, non è la Nike che “sa di spendere per la sponsorizzazione di una star dello sport occidentale più del monte salari annuo di migliaia di operai cinesi”? Non è la Timberland che “sa di pagare mezzo euro l’operaio che confeziona scarpe da 150 euro”? Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
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