“Le società aperte” ha scritto Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 15-11-2007) “sono innanzitutto società curiose, Paesi in cui la curiosità verso il mondo e la meraviglia verso la vita sono tratti comuni, anche di chi ha raggiunto il potere o posizioni prestigiose”.
Quanto è curiosa l’Italia? Ben poco se pensiamo agli esigui fondi destinati alla ricerca scientifica (nemmeno l’1% del prodotto interno lordo). Come stupirsi, allora, dinanzi alle statistiche che vedono il Bel Paese, rispetto agli altri membri dell’Eurozona, crescere sempre meno della media Ue?
“Ciò che ha spento la nostra università” scrive Giavazzi “è la scomparsa della curiosità per la ricerca scientifica: ne è la prova un sistema retributivo basato esclusivamente sull’anzianità. Brevettare una scoperta, pubblicare su una prestigiosa rivista internazionale è ininfluente: lo stipendio procede solo con gli anni, indipendentemente dalla qualità della ricerca e anche dell’insegnamento”.
Sarà anche per questo che, dati Ocse alla mano, la capacità attrattiva delle nostre istituzioni accademiche è pari solo al 6% contro una media europea del 12%? Una misera percentuale, questa italiana, se paragonata al 16% di laureati/dottorati che decidono invece di trasferirsi nel Regno Unito, pronti ad offrire tutte le potenzialità dei loro “cervelli”.
D’altra parte, come ha scritto Massimiano Bucchi dell’Università di Trento (La Stampa, 16-5-2007), “In uno scenario globale il problema non è esportare competenze (…); è invece l’incapacità di attrarre competenze”.
Come fare allora ad attrarre più capitali (umani e non solo) dall’estero? Basterebbe ridare al merito la giusta rilevanza che qualunque Paese liberale gli darebbe. Basterebbe avere il coraggio di mettere in discussione vecchi privilegi per garantire nuovi diritti.
Vi dice qualcosa la politica della Danimarca in materia di lavoro, dove vi è libertà di licenziamento ma anche generosi sussidi di disoccupazione per ben tre anni, nell’attesa di trovare una nuova occupazione?
Vi dice qualcosa l’idea francese di abolire i contratti a tempo determinato e indeterminato, per far posto a un contratto unico capace di offrire garanzie crescenti di stabilità ai lavoratori?
“Tra le cose di cui gli inglesi vanno fieri vi è il loro torneo di tennis” scrisse qualche tempo fa Tommaso Padoa-Schioppa (Corriere della Sera, 14-7-2005); “Il Club di Wimbledon punta a organizzare il miglior torneo del mondo e tutto volge a questo fine: eccellenza di giocatori, arbitri, prato, raccattapalle, comportamento del pubblico”.
Riuscirà mai l’Italia ad organizzare il suo torneo di Wimbledon?
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