Prima di iniziare a vederlo, avevo qualche pregiudizio di troppo, pensando (e a torto) che il grande successo di pubblico non fosse sintomo anche di qualità artistica. E invece, dopo la prima puntata della prima stagione di Lost (vista qualche mese fa), la mia passione per le storie dei sopravvissuti del volo Oceanic 815 è cresciuta a dismisura, puntata dopo puntata, stagione dopo stagione. Fino alla quarta stagione, per la precisione. E ora che sono arrivato al capolinea (temporaneo) della serie tv in questione – in attesa di vedere le puntate conclusive della quarta stagione che già stanno andando in onda negli Stati Uniti – posso per un po’ soffermarmi a pensare a tutte le emozioni che un grande telefilm come Lost (un capolavoro, secondo Aldo Grasso) riesce a trasmettere ai suoi fedeli spettatori. Che, sin dall’inizio della serie, non hanno potuto non identificarsi nel destino tragico dei protagonisti, precipitati su un’isola sconosciuta e misteriosa, piena di insidie e segreti, completamente privi di certezze e lontani anni luce dalla vita di sempre in quel mondo che, giorno dopo giorno, appare più lontano e inafferrabile. Ma la vita continua la sua corsa inarrestabile verso il futuro, costringendoci (insieme ai personaggi) a rivedere le nostre abitudini di un tempo, le nostre convinzioni passate, ormai quasi inutili su un’isola sperduta in mezzo all’oceano. Ci sentiamo persi (lost, appunto), e forse proprio per questo ancora vivi, pronti a tutto pur di sopravvivere in qualche modo.
domenica 27 aprile 2008
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