di Paolo Massa
I film diretti da Clint Eastwood, specialmente gli ultimi (basti pensare a Mystic River o a Million Dollar Baby), non sono semplici film. Non si limitano a raccontare delle storie che appassionino in qualche modo gli spettatori. Sono invece degli autentici spaccati su pellicola della realtà, con tutte quelle sfumature che spesso non riusciamo a scorgere ad occhio nudo. Ma l’“occhio” di Clint Eastwood, grazie ad una regia quanto mai classica e lineare, nulla si lascia sfuggire.Ecco perché non bisogna stupirsi della grande capacità del regista di scandagliare così a fondo i turbamenti dell’animo umano. E’ un’analisi, quella di Eastwood, che non si ferma in superficie, non si accontenta di presentarci dei personaggi e di raccontarci nel modo più chiaro possibile la storia che li vede coinvolti. Niente di tutto questo. Il suo sguardo dall’alto, a illuminare il piccolo grande mondo da lui rappresentato per immagini, è uno sguardo impietoso che non lascia lo spettatore in balia dei suoi desideri. Seduti al buio della sala, siamo condotti dove il regista ha deciso di condurci, senza la minima concessione ai gusti del pubblico.
Clint Eastwood un po' come Walt Kowalski, insomma, ultimo e indimenticabile personaggio interpretato dal regista nel film Gran Torino, da poco uscito nelle sale italiane e snobbato (ingiustamente) alla scorsa edizione degli Oscar. Walt è un reduce della guerra in Corea, solo e burbero quanto basta per odiare i suoi vicini di casa, “hmong” di origine asiatica trasferitisi negli Stati Uniti subito dopo la guerra in Vietnam. Walt ha perso da poco la moglie, ha due figli che pensano ai soldi dell’eredità e a convincere il padre a trasferirsi in un ospizio. Come unica consolazione, il cane Daisy ma soprattutto l’amata “Gran Torino” classe 1972, auto d’epoca marcata Ford, l’azienda a stelle e strisce per la quale ha lavorato tutta una vita.
Fin qui il film ci descrive senza sbavature il contesto di solitudine di Walt, tratteggiando anche con un pizzico di ironia il carattere scontroso del protagonista e il suo rapporto – almeno all’inizio – non particolarmente felice con i vicini “musi gialli”, come Walt è solito definirli. Ma l’incontro/scontro tra i personaggi in gioco è alle porte. Non appena, infatti, Kowalski sorprenderà il giovane Thao, della famiglia “hmong” accanto, mentre tenta di rubargli la sua “Gran Torino”, il risentimento verso il diverso sembra crescere ancor di più. Quando la famiglia di Thao, però, si offrirà di farsi perdonare per il tentato furto del ragazzo, Walt sarà costretto ad accettare, anche in nome dell’amicizia con Sung, la sorella di Thao, il simbolo di una gioventù pronta ad immergersi nelle tradizioni della propria patria d’adozione, gli Stati Uniti, senza però rinnegare le sue origini “hmong”.
Qui la pellicola di Eastwood assume i connotati di un film capace di descrivere la complessità di una società, come quella americana, dove sempre più spesso gli alibi dello scontro prevalgono sulle ragioni della comprensione reciproca. E la splendida figura di Walt Kowalski, che a un certo punto capisce di avere forse più cose in comune con quei “musi gialli” e non con la sua famiglia, nell’immolarsi in nome della non violenza assume i caratteri di un redivivo Gesù Cristo, nella consapevolezza che dare il giusto esempio ai più giovani è l’antidoto migliore per impedire il ripetersi della Storia.
Walt ha combattuto in guerra, ha ucciso degli uomini, a volte anche dei ragazzini, ed è per questo che da buon padre americano dovrà prendere una decisione tanto sofferta quanto necessaria. Un anti-eroe dei nostri tempi, fiero del suo passato e pronto a tutto pur di difendere il futuro dei suoi ragazzi. Un malcelato richiamo, questo di Clint Eastwood, ad una nuova America?
2 commenti:
Bravo Clint, è riuscito a passare il messaggio del riscatto fra un uomo rivolto al passato e il futuro dei giovani, bisognosi di comprensione e guida, malgrado i pregiudizi. Rappresenta la paternità che non ha avuto con i suoi figli, o la nazione che accoglie e non sa capire la violenza che cresce nelle minoranze?
Un commovente messaggio.
anna maer
Secondo me rappresenta entrambe, Anna.
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