domenica 28 febbraio 2010
sabato 27 febbraio 2010
Amabili resti, di Peter Jackson
Da bambina amava guardare un pinguino all’interno di una palla di vetro: le sembrava molto triste quell’animale costretto tutto il giorno a restare intrappolato in solitudine; ma il padre la tranquillizzava dicendole quanto la vita del pinguino fosse piacevole. Quello è un mondo perfetto, dentro quel vetro non può accadere nulla, a differenza del mondo reale dove Susie avrà la sfortuna di vivere invece sulla propria pelle una morte violenta. C’è anche l’amore a scombussolare i giorni della giovane studentessa, invaghitasi del suo moro shakespeariano Ray.
La voce fuori campo della ragazzina ci parla dall’inizio alla fine accompagnandoci per mano nei meandri dei suoi pensieri, nella speranza di riuscire a sussurrare al padre (Mark Wahlberg), alla madre (Rachel Weisz) e alla sorella il nome dell’uomo nero che le ha spezzato per sempre i sogni d’amore. Susie avrebbe voluto, almeno una volta, baciare il suo ragazzo, ma il destino l’ha strappata via troppo presto dal sentiero della felicità che stava percorrendo con tanta paura ed emozione.
Peter Jackson riesce ad affrontare un tema scottante come la violenza sui minori, non lesinando sequenze a tratti disturbanti e con un tocco poetico attraverso il quale ci mostra - a volte con eccessiva insistenza – il limbo dove Susie si trova intrappolata prima di raggiungere l’unico mondo perfetto, il Paradiso. È forte la presenza dei morti tra i vivi che si disperano per la loro scomparsa, ancor di più se prematura. Susie ha vissuto a pieno fin quando ha potuto, da appassionata di fotografia ha scattato istantanee della propria vita sempre e dovunque, e come il soggetto di una sua foto ha potuto godersi la giovinezza solo per un istante. Troppo poco per una ragazza sognatrice come Susie Salmon.
venerdì 26 febbraio 2010
L'uomo che verrà, di Giorgio Diritti
di Paolo Massa
Martina ha solo 8 anni, non parla da quando ha visto morire il fratellino appena nato, ma sa guardarsi intorno meglio di chiunque altro. La bambina - piccola grande protagonista dell’ultimo film di Giorgio Diritti L’uomo che verrà - ci guida con i suoi sguardi e pensieri in un mondo dove Cristo sembra essere l’ultima speranza cui aggrapparsi contro i soprusi dei padroni e le sofferenze della vita. La famiglia contadina di Martina vive in un paesino alle pendici del Monte Sole, durante l’invasione nazista nel nord Italia tra il 1943 e il 1944. Da quando si sentono i bombardamenti su Bologna, gli abitanti si trovano giorno dopo giorno stretti tra le brigate partigiane del comandante Lupo e i tedeschi che avanzano città dopo città.
«È il modo di fare che cambia le cose», dicono i contadini abituati a condurre un’esistenza lenta e religiosa all’insegna di un lavoro che spacca la schiena. Lo sa bene Lena (Maya Sansa), la madre di Martina che continua imperterrita ad aiutare nei campi il marito sebbene incinta. E anche la piccola protagonista è in attesa di abbracciare il suo nuovo fratellino, cercando di non pensare alle strane cose che avvengono intorno a lei: «Tutti si vogliono ammazzare ma non capisco perché», scrive la bambina in un tema a scuola. Giorgio Diritti ci introduce, con rigore stilistico e sguardo antropologico, alla vita di sudore e lavoro di una comunità che di lì a poco vivrà sulla propria pelle la violenza della macchina di morte nazista: stiamo parlando della strage di Marzabotto, avvenuta tra il 28 e il 29 settembre 1944, in cui persero la vita quasi 800 civili, comprese donne e bambini.
La pellicola colpisce dritto al cuore, e quando meno te lo aspetti mostra senza remore le conseguenze (fisiche e morali) che la guerra porta sin dentro una natura incontaminata, dove si possono vedere ancora le lucciole e gli alberi sembrano parlare. Pur se eccessivamente dilatato nel finale, L’uomo che verrà è un piccolo grande gioiello (tra l’altro recitato quasi tutto in dialetto) ricco di spunti visivi e sonori capaci di coinvolgere a pieno lo spettatore. «Vince chi resta vivo», dice un anziano contadino a proposito della guerra, perché almeno per i sopravvissuti la speranza sarà l’ultima a morire.
A Single Man, di Tom Ford
lunedì 22 febbraio 2010
domenica 21 febbraio 2010
sabato 20 febbraio 2010
La democrazia secondo Clint Eastwood
La squadra verde-oro degli Springboks, capitanata da Francois Pienaar (un bravo Matt Damon), è ammessa d'ufficio al mondiale ma le vittorie scarseggiano. Mandela capisce ben presto che lo sport potrebbe giocare un ruolo fondamentale nella pacificazione degli animi sudafricani, ancora divisi tra bianchi e neri nonostante l'abolizione dell'apartheid. L'idea vincente di Eastwood, che fa di Invictus un altro mirabile tassello della sua filmografia, sta tutta nell'accurata descrizione delle passioni che spingono i personaggi ad agire per il futuro di una nazione alla ricerca di se stessa.
La prima parte della pellicola tratteggia bene gli sforzi profusi da un presidente nero - il primo della travagliata storia sudafricana - per convincere il suo popolo a non coltivare sentimenti di vendetta, attraverso per esempio l'abolizione del nome e della divisa degli Springboks. Significativa è anche la scelta di Mandela di accettare nella scorta uomini bianchi, costringendo le sue fedeli guardie del corpo a vivere sulla propria pelle la ventata di cambiamento che rivoluzionerà i rapporti sociali nel nuovo Sud Africa.
«La nazione arcobaleno inizia qui, la riconciliazione inizia qui, il perdono inizia qui», ribadisce con forza il neopresidente ogni volta che qualcuno lo avverte dei rischi che sta correndo. Ma un leader che non osa essere impopolare, quando è giusto esserlo, non merita di fare il leader. Una grande lezione di democrazia, questa di Clint Eastwood, che - traendo spunto dal libro di John Carlin Ama il tuo nemico - realizza un film poliedrico, ricco di sfumature pubbliche (il destino di una nazione e di un popolo) e private (la forza dell'uomo di fronte alle sfide impossibili), riuscendo nel finale a rendere - con un pizzico di retorica di troppo - la gioia dei sudafricani (bianchi e neri, giovani e adulti) per l'inattesa vittoria della loro nazionale contro gli All Blacks neozelandesi.
Curata nei minimi particolari anche la violenta battaglia sul campo tipica delle partite di rugby, uno sport dove non sempre è possibile giocare al 100%. Un po' come la vita, quando ognuno - pur essendo padrone del proprio destino e capitano della propria anima - deve comunque far fronte agli ostacoli più imprevisti. Basta non arretrare ed essere disposti a rinascere come fecero gli Springboks. «Siamo più di un squadra di rugby - dice il capitano Pienaar ai suoi compagni -, perché i tempi cambiano e anche noi dobbiamo cambiare».
venerdì 19 febbraio 2010
giovedì 18 febbraio 2010
mercoledì 17 febbraio 2010
martedì 16 febbraio 2010
domenica 14 febbraio 2010
sabato 13 febbraio 2010
venerdì 12 febbraio 2010
giovedì 11 febbraio 2010
Avatar, di James Cameron
Al protagonista propongono di continuare il progetto iniziato dal fratello (morto in missione) per sbarcare sul pianeta Pandora nel corpo di un avatar, studiato a immagine e somiglianza degli umani ma con sembianze da Na’vi, il popolo che lì vive. Jake Sully dovrà cercare di infiltrarsi tra loro per carpirne segreti e tradizioni, per convincerli poi a sloggiare e far posto agli umani colonizzatori pronti a tutto pur di accaparrarsi il prezioso minerale che Pandora custodisce. La diplomazia non funzionerà e scoppierà una guerra sanguinosa tra Na’vi ed esseri umani, con un altissimo numero di vittime.
Jake Sully non saprà distinguere più tra realtà e sogno, perché ben presto la sua nuova vita nel corpo del proprio avatar gli permetterà di fare cose (grazie all’ausilio delle lunghe e agili gambe da Na’vi) che da umano gli sono impossibili. Jake ha anche modo di innamorarsi in questa sua nuova vita, e di scoprire un mondo meraviglioso dove l’armonia con la natura è incomprensibile agli umani ormai colpevoli, sulla loro terra, della distruzione di quella stessa natura.
E nel caratterizzare visivamente il pianeta Pandora, James Cameron compie un vero e proprio miracolo cinematografico, confezionando un capolavoro in 3D agli occhi di coloro che sanno e (vogliono) ancora emozionarsi di fronte a una storia semplice ambientata in un mondo immaginario ma così reale e tangibile. Come dire: è il cinema, bellezza!
mercoledì 10 febbraio 2010
domenica 7 febbraio 2010
Chi comanda a Milano
«Fate impresa dove ci sono i soldi», consigliava Bernardo Provenzano, il boss corleonese di Cosa Nostra, ai suoi picciotti. In Lombardia, e in particolare a Milano, di soldi ne girano parecchi. La regione è oggi la quinta in Italia per quantità di beni confiscati alla mafia, mentre Milano è diventata negli ultimi dieci anni una delle capitali del traffico internazionale di cocaina. Per Gianni Barbacetto, giornalista de Il Fatto quotidiano, il capoluogo lombardo è un mercato aperto alla criminalità organizzata «perché non ci sono filtri, nella politica e nell’economia, che bloccano l’ingresso delle mafie, e anche perché è una piazza dove non c’è un’organizzazione criminale monopolista come a Palermo, Napoli e Reggio Calabria: Milano è come la Rinascente, nel senso che tutte le marche criminali possono aprire la loro boutique».
La città è storicamente una terra dove, sin dagli anni Sessanta, sono presenti diverse famiglie mafiose. Lo dice Cesare Giuzzi, curatore insieme a Davide Milosa del sito Milano Mafia, evidenziando come negli ultimi anni ci sia stato l’avvento dei gruppi calabresi, ora egemoni sul territorio milanese. «A dominare sono le famiglie di Reggio Calabria come i Barbaro-Papalia – aggiunge Giuzzi – e le cosche del crotonese degli Arena e dei Paparo, coinvolte un anno fa negli arresti per le infiltrazioni nei lavori dell’alta velocità». A Milano città e nell’hinterland – da Buccinasco a Cologno Monzese, da Rozzano fino in Brianza – sono una cinquantina le famiglie della ‘ndrangheta censite sul territorio. Secondo il giornalista di Milano Mafia, «queste famiglie riescono a convivere nonostante gli equilibri molto precari in Calabria, perché tutto ciò che avviene al Nord è comunque legato a doppio filo a quello che succede al Sud».
«A Milano la mafia non esiste», o almeno quella che si distingue per gli omicidi e le gambizzazioni, ha detto davanti alla Commissione parlamentare antimafia il prefetto Gian Valerio Lombardi. Per Gianni Barbacetto «la mafia a Milano non si limita a fare affari tramite i colletti bianchi che lavorano in borsa, ma è una criminalità vera e propria con la sua componente militare, perché le mafie sono insieme affari e violenza». Come evidenzia Cesare Giuzzi, «le dichiarazioni di Lombardi sono la prova di una percezione che si ha del fenomeno criminale molto inferiore rispetto alla portata, e la colpa è anche dei media, visto che una cosa che avviene a Milano città conta dieci volte di più». «Se dovessi gambizzare un imprenditore – continua Giuzzi – anziché sparargli in via Manzoni a Milano andrei a ferirlo in un paesino vicino Magenta, o nelle campagne di Desio, dove so che la notizia durerebbe il tempo di una giornata».
Basti pensare, ad esempio, che negli ultimi diciotto mesi si sono contati, in provincia di Milano, almeno sei omicidi di matrice mafiosa: l’omicidio del boss della ‘ndrangheta Carmelo Novella, avvenuto nell’estate del 2008 all’interno di un bar, e l’uccisione lo scorso novembre di Giovanni Di Muro, sotto inchiesta in un processo di mafia, che aveva deciso di collaborare con i magistrati.
La capitale europea della cocaina
«Secondo una stima, almeno un ragazzo su tre, nella fascia tra i 15 e i 40 anni, ha fatto uso nell’ultimo anno di cocaina – dice Giuzzi –. Oltretutto i prezzi sono in forte ribasso e nei prossimi anni dovrebbero scendere ancora: si arriverà a cifre intorno ai 60-70 euro al grammo». Il traffico di cocaina serve soprattutto ad accumulare il denaro sporco che poi viene “ripulito” in affari leciti. «Una volta la raccolta del capitale iniziale – evidenzia Gianni Barbacetto – era fatta con i sequestri di persona, poi è diventato poco conveniente perché oggi con lo spaccio di cocaina si prendono un mucchio di soldi da impiegare, ad esempio, in operazioni immobiliari». Per il giornalista de Il Fatto quotidiano, Milano è una delle capitali europee della cocaina, anche se non bisogna sottovalutare il potenziale economico di altre droghe come l’hashish e la marijuana. Secondo Cesare Giuzzi «c’è una grande collaborazione tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta per il traffico di droga, nel senso che spesso hanno dei referenti comuni nei paesi del Sud America e in Spagna». Al momento, però, la ‘ndrangheta sembra la più forte sul mercato della cocaina «perché buona parte degli emissari in America latina sono per lo più di provenienza calabrese».
La finestra sull’edilizia
È un settore privilegiato, quello dell’edilizia, soprattutto dalla ‘ndrangheta: «Non serve una grande capacità imprenditoriale – sottolinea il giornalista di Milano Mafia – e spesso non ci sono controlli». Secondo alcune inchieste, il movimento terra è l’affare privilegiato dalle cosche attraverso subappalti che vengono vinti sempre dalle stesse imprese. «Il cantiere che non affida i lavori alle aziende dei calabresi è a rischio: a testimoniarlo ci sono un mucchio di cantieri bruciati» dice Gianni Barbacetto. Nel caso del movimento terra, spiega Giuzzi, le famiglie criminali guadagnano anche mille euro a camion, e «in alcuni casi sono stati fermati dei ragazzi di 17 anni, senza nemmeno la patente, saliti da San Luca e Platì per guidare i mezzi fino a Buccinasco».
Le infiltrazioni mafiose riguardano anche i lavori per la quarta corsia dell’autostrada Milano-Bergamo e i cantieri dell’alta velocità, mentre si temono interessi delle famiglie calabresi per le gare d’appalto in vista dell’Expo 2015. Ma la ‘ndrangheta non è solo edilizia. «C’è un aumento del prestito ad usura – evidenzia Giuzzi – perché ci sono aziende con l’acqua alla gola, nella fascia delle piccole e medie imprese da Torino a Verona, dove arrivano i prestanome delle cosche per aiutarle e poi cannibalizzarne l’attività». A Milano un altro settore in cui sono attivi i calabresi, ma anche i siciliani, è quello delle cooperative di pulizia e facchinaggio. «Ce ne sono decine che fanno riferimento a personaggi della ‘ndrangheta – dice Barbacetto – e che muovono migliaia di lavoratori pagati in nero, soprattutto extracomunitari».
La sponda della politica
I contatti tra criminalità organizzata e politica milanese ci sono. D’altra parte, «senza rapporti con la politica – ammette il giornalista de Il Fatto quotidiano – non c’è organizzazione criminale che tenga». C’è il caso del consigliere regionale del Popolo della libertà, Alessandro Colucci, filmato ad una cena insieme a Salvatore Morabito, il presunto boss dell’ortomercato. «Colucci ha detto di non sapere che ci fosse quella persona – dice Cesare Giuzzi – anche se al ristorante risultavano esserci altri soggetti legati allo stesso ambiente criminale». Gianni Barbacetto ricorda, invece, la vicenda dell’onorevole Francesco De Luca, «indagato perché aveva promesso a un gruppo camorristico, il clan di Vincenzo Guida, di intervenire presso la Cassazione per aggiustare un processo per omicidio. De Luca se l’è cavata dicendo di non aver mantenuto la promessa». Ci si chiede, dunque: quanto è permeabile la politica lombarda alle offerte della criminalità organizzata?
Il comunismo secondo Tchaikovsky
Trent'anni prima, sotto il governo di Brezhnev, fu accusato di aver tradito il popolo comunista per essersi rifiutato di allontanare alcuni musicisti di origine ebraica. Per questo la sua carriera finì bruscamente, ritrovandosi con la bacchetta (spezzata) in mano e uno spartito da appendere al chiodo. Ora Filipov è costretto a lavorare come custode in quello stesso teatro che lo vide trionfare da direttore d'orchestra.
"Alla ricerca dell'armonia perduta" potrebbe essere un ottimo sottotitolo al film del regista di Trein de Vie. Questa ricerca ha inizio quando il protagonista intercetta un fax del Théâtre du Châtelet di Parigi, che invita l'orchestra del Bolchoï a suonare nella capitale francese. Quale migliore occasione, pensa Andrei Filipov, per riprendersi la propria rivincita contro la Storia? Decide così di spacciarsi, insieme ai suoi ex orchestrali e al migliore impresario musicale russo su piazza, per la vera orchestra russa ed esibirsi così finalmente in Francia.
Come violino solista il direttore sceglie Anne-Marie Jacquet (una bella e brava Mélanie Laurent), la cui storia è segretamente legata al protagonista. Come? Senza svelare nulla di compromettente, diciamo solo che la resa dei conti si avrà durante la (lunga e complessa) sequenza finale del concerto al teatro di Parigi. Sullo sfondo della musica di Tchaikovsky, i nodi verranno tutti, nel bene e nel male, al pettine.
La pellicola sorprende per la capacità di intrattenere saltellando di registro (comico) in registro (drammatico) senza mai annoiare. Ognuno ha dentro di sé una musica prigioniera da liberare, basta solo afferrarla e donarla ai propri compagni d'orchestra e agli spettatori. Questo vuol dire ancora comunismo, ci suggerisce il regista, perché un'orchestra è un pianeta a parte dove sono le differenze a farne la forza principale. Un po' come il nostro vecchio, pazzo mondo, al di là di qualsiasi ideologia.
Storia di un'educazione sentimentale
Jenny desidera iscriversi ad Oxford, spinta soprattutto dal padre (Alfred Molina), ma i voti di latino non sono così alti per permetterle di raggiungere facilmente il traguardo. Poi ci si mette anche l'amore, e la frittata è fatta. Incontra David (Peter Sarsgaard), un 35enne simpatico, affascinante e amante dell'arte e della musica classica, che da un passaggio in auto riuscirà a conquistare pian piano il cuore della giovane liceale ansiosa di conoscere il mondo al di fuori della sua Bristol.
Jenny sembra quasi un pesce fuor d'acqua nella bacchettona società inglese di inizio anni Sessanta, e il suo relazionarsi con un uomo più grande le darà un'aurea di fascino agli occhi delle amiche ancora ignare dell'altro sesso. Ma a scuola si comincia anche a sparlare di questo rapporto forse troppo azzardato: almeno così la pensano la professoressa di letteratura e la preside. Dopo il primo appuntamento con David, appena tornata a casa la mamma le chiede «Com'è andata? », e la figlia risponde «È stata la serata più bella della mia vita».
L'azione è carattere, e la giovane sa bene che da quando ha conosciuto quest'uomo la sua vita è cambiata all'insegna del movimento. Le nuove esperienze - il fumo, i club più esclusivi dove ascoltare del buon jazz, lo champagne, i bei vestiti, il viaggio a Parigi - le smuovono profondamente l'animo facendola sentire più grande e soprattutto matura. Ma sarà tutto oro quel che luccica? Jenny lo scoprirà sulla propria pelle, dovendo alla fine ammettere di sentirsi «vecchia ma non saggia» dinanzi agli errori commessi.
La pellicola affascina nella sua capacità, all'inizio, di rendere bene la metamorfosi della ragazza da anonima studentessa a novella Audrey Hepburn, grazie soprattutto alla bella interpretazione dell'attrice protagonista. A lungo andare, però, la regista sembra perdere il bandolo della matassa, accelerando troppo nel finale i tempi narrativi per chiudere il cerchio di una storia che, senza l'apporto della piacevole colonna sonora e degli attori, non avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo.
La bellezza e l'inferno secondo Steve McCurry
Nella sezione L’altro sono esposti i ritratti che McCurry ha “rubato” in giro per il mondo, dall’Afghanistan al Tibet fino all’India. Secondo il fotografo Philippe Halsman, «un vero ritratto dovrebbe testimoniare, sia oggi che tra cento anni, l’aspetto di una persona, ma anche il tipo di umanità che porta con sé». È proprio l’umanità dei soggetti fotografati a colpire l’immaginario di Steve McCurry, perché «osservare un viso è come guardare dentro un pozzo, sul fondo si compone un riflesso, ed è l’anima che si lascia intravedere».
Nella sezione Guerra, invece, sono le conseguenze dei conflitti ad emergere dalle foto di McCurry. Di ritorno da un viaggio in Tibet il 10 settembre 2001, il fotografo assiste il giorno dopo, dalla finestra del suo studio di New York, alla distruzione delle Torri Gemelle. Il passaggio dal silenzio del viaggio alla guerra scoppiata in casa trova la giusta armonia negli scatti della tragedia americana. Sui paesaggi della prima guerra del golfo in Kuwait, McCurry scrive: «Seicento pozzi di petrolio in fiamme, il cielo nero e denso più della notte, animali agonizzanti, corpi carbonizzati: questo è l’inferno».
Nella mostra Sud-Est, che testimonia dei viaggi intrapresi da Steve McCurry nel Sud e nell’Est del mondo, c’è anche spazio per la Gioia e la Bellezza. Dagli scenari di guerra si passa a scene di vita quotidiana all’insegna della felicità capace di distendere gli animi del mondo. «Dietro ad ogni immagine c’è una storia, ed è la storia che voglio incorniciare», ammette l’autore. Di qui il passo verso la Bellezza è breve, con il celebre scatto della bambina afgana dagli occhi verdi. Una bellezza che sembra essere l’ultima risorsa contro il dilagare dell’inferno in terra. Come diceva Albert Camus, «l'inferno ha un tempo solo, la vita un giorno ricomincia».
Tra le nuvole, di Jason Reitman
Potremmo quasi dire che il peso del bagaglio di Ryan è direttamente proporzionale al peso della sua vita. Ma Ryan non ha una propria vita, nessuna relazione stabile, e quelle poche tende a dimenticarsele (ha due sorelle, di cui una in procinto di sposarsi). Ma anche in volo, forse soprattutto lassù tra le nuvole, le cose cambiano. L’arrivo in azienda di Natalie (Anna Kendrick), giovane e brillante laureata che propone al boss di Ryan di licenziare via webcam i malcapitati di turno, scombussola le poche certezze del tagliatore di teste volante. Il protagonista non ha, infatti, nessuna voglia di rimanere a terra a lavorare, perché come si sforza di dire durante le sue applauditissime conferenze non bisogna mai rimanere fermi.
Muoversi, muoversi, muoversi, è il motto del nostro protagonista, meglio se in aereo tra aeroporti, alberghi e automobili in affitto. Per ordine del suo capo, Ryan viene affiancato alla giovane laureata per insegnarle i trucchi del mestiere. I due avranno modo di fare amicizia e conoscersi meglio durante i loro tentativi di alleviare il dolore dei futuri licenziati: “Noi li prendiamo in un momento di fragilità e li lasciamo andare alla deriva”, spiega imperturbabile Bingham a Natalie. Ma anche i tagliatori di teste hanno le proprie fragilità, compreso Ryan, intanto affezionatosi alla sua collega di volo Alex (Vera Farmiga). Nascerà una relazione che permetterà al protagonista di guardare al mondo e alla vita con occhi diversi, forse più maturi.
Una storia, quella raccontata da Jason Reitman (il regista di Juno), che ci fa capire quanto sia importante, in tempi di disoccupazione galoppante e felicità sfuggente, recuperare quei valori non soltanto economici ma soprattutto umani. Perché si può essere costantemente accerchiati, come ammette Ryan, ma pur sempre soli: anche tra le nuvole. Il film - a tratti un po’ prevedibile - ha comunque il gran merito di aver caratterizzato bene i nostri tempi di occupazione calante ed egoismi crescenti, immergendosi perfettamente nel cuore della Storia più recente. Chapeau!
Soul Kitchen, di Fatih Akin
Zino possiede un ristorante, il Soul Kitchen appunto, dove cucina schifezze indicibili che attirano comunque una certa clientela. Il giovane ha problemi di cuore perché la fidanzata Nadine è in procinto di partire come corrispondente per Shangai, e quindi l’unica cosa rimasta di cui occuparsi sembra essere proprio questo suo locale. Incontra un vecchio amico di scuola, molto interessato ad acquistare il terreno dove sorge il Soul Kitchen, e che per riuscire nell’intento farà veramente di tutto per costringere Zino a vendere la proprietà. A un certo punto compare anche Illias, fratello del protagonista da poco uscito di galera ma in libertà vigilata, che ne combinerà di tutti i colori ai danni del giovane cuoco.
Tutte queste vicende ruotano attorno al famigerato Soul Kitchen, che a pensarci bene è il solo, vero grande protagonista del film. Qui si cucina, si mangia, si balla, si fa sesso, tirando a campare nella speranza di non perdere quel tram che si chiama amore. Un film fresco e genuino da non perdere.
La prima cosa bella, di Paolo Virzì
Il film ci porta avanti e indietro nel tempo. Durante gli anni Settanta quando la giovane Anna viene proclamata Miss Mamma in un lido di Livorno, scatenando le gelosie del marito Mario, un padre che spesso si rivelerà violento e poco affettuoso. E ai giorni nostri, quando la madre di famiglia (interpretata da Stefania Sandrelli) è ormai malata terminale, pronta a fare i conti con il passato. Ma sono soprattutto i figli ormai cresciuti – Bruno alle prese con problemi di tossicodipendenza, Valeria intrappolata in un matrimonio che le sta troppo stretta – a dover fare questi conti con loro stessi, ed entrambi si ritroveranno a ripercorrere (insieme allo spettatore) gli attimi belli e brutti della propria infanzia e adolescenza.
Welcome, di Philippe Lioret
Da qui l’idea folle del ragazzo, appena diciassettenne, di attraversare a nuoto lo stretto della Manica per completare il suo viaggio. Così inizia a prendere lezioni in piscina, dove di tanto in tanto ne approfitta per farsi una doccia. Qui incontra un istruttore che ben presto si affezionerà a lui, facendogli quasi da padre e rischiando non poco con le autorità francesi, sin troppo zelanti nel punire (anche con la reclusione) l’eventuale “collaborazionismo” dei cittadini con gli immigrati intenzionati a sbarcare in Gran Bretagna.
La pellicola – piccola grande rivelazione della scorsa stagione – tratteggia bene i due protagonisti, quasi speculari l’uno con l’altro nella costante ricerca della felicità, rappresentata per entrambi dall’amore verso una donna. Welcome è un film duro, che non risparmia sequenze crude nel descrivere i disperati tentativi dei migranti di raggiungere le rispettive terre promesse a bordo di camion nascosti come topi. Un film che riesce anche a far sorridere e commuovere evidenziando l’estrema umanità dei personaggi, tutti immersi in un contesto che della realtà ci mostra il suo lato più tragico e crudele. Con un pizzico di poesia, che non guasta mai.
giovedì 4 febbraio 2010
L'affaire Moro, di Leonardo Sciascia
E' il 25 aprile: giorno in cui si celebra la liberazione dal nazifascismo. La marea della retorica sale. La Resistenza al nazi-fascismo, valore indistruttibile quanto il rispetto della Democrazia Cristiana ad Aldo Moro, viene invocata e trasposta come resistenza alle trattative per salvare la vita di Moro. Il guaio è che quella Resistenza è un valore indistruttibile anche per le Brigate rosse: credono di esserne i figli, di continuarla o di ripeterla.
di Aldo Moro
Possibile che siate tutti d'accordo nel volere la mia morte per una presunta ragione di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del Paese?