Chi non si è posto ancora il problema dell’inglese? Mi spiego: chi non sente la necessità, oggi come oggi, dove (quasi) tutti parlano la lingua degli anglosassoni, di imparare un idioma tanto semplice quanto ricco di sfumature? Insomma, per chi avesse questo desiderio inconfessabile, quello di saper parlare l’inglese, il libro di Beppe Severgnini – L’inglese. Nuove lezioni semiserie – è altamente consigliato. Ma ad una condizione, come ci avverte fin dall’inizio l’autore: quella di sapere che “l’inglese è una lingua che non si ama. Si usa”, per citare un pensiero del filologo americano Stuart B. Flexner. D’altra parte, ci tiene ad evidenziare Severgnini, i “nuovi analfabeti sono coloro che non conoscono l’inglese”. Come dire: uomo avvisato, mezzo salvato. C’è da dire, però, che il libro del giornalista del Corriere della Sera è quanto di più lontano ci possa essere da un’asettica grammatica pronta a snocciolarci tutte le regole (grammaticali, appunto) da rispettare. Anzi, proprio nello spiegarcele, queste regole, Beppe Severgnini si serve della sua istrionica indole da scrittore, utilizzando niente di meno che numerosi titoli di film per farci capire i principali “diktat” della grammatica inglese. Oppure, a fronte della sua lunga esperienza di corrispondente dagli Stati Uniti e dal Regno Unito (tra l’altro è stato anche collaboratore dall’Italia per il prestigioso The Economist), ci consiglia di imparare l’inglese anche, e soprattutto, dalle canzoni d’oltreoceano, magari cercando di tradurne i testi in italiano. Per la serie: come unire l’utile al dilettevole. In fondo, ci spiega Severgnini, “se parlare inglese bene è difficile, e parlarlo come un inglese praticamente impossibile, farsi capire è uno scherzo. Ad una condizione: non bisogna avere rispetto per la lingua che studiamo, almeno all’inizio. Se gli inglesi inorridiscono, peggio per loro. Gli americani, di sicuro, sorrideranno”. Quindi, fatevi sotto italiani alle prime armi, desiderosi di viaggiare all’estero con la speranza di farvi capire non solo a gesti ma anche a parole, magari pronunciate in un inglese un po’ sgrammaticato. E non disperate: tanto, come scrisse il poeta inglese George Herbert, “gli occhi parlano ovunque la stessa lingua”.
sabato 2 febbraio 2008
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